2 Gennaio 2019

La dismissione di opere d’arte per necessità non è attività d’impresa

di Alessandro Bonuzzi
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La dimissione del patrimonio artistico di proprietà del collezionista, avvenuta in modo massiccio molto tempo dopo l’acquisizione delle opere d’arte e dovuta a necessità personali, non è sottoponibile a tassazione a differenza dei proventi dell’attività d’impresa.

Lo ha stabilito la CTR Piemonte con la sentenza n. 1412 del 18.09.2018.

La vicenda riguarda la sottile linea di demarcazione che si innesta sul piano fiscale tra la figura del mercante d’arte, da considerare a tutti gli effetti un soggetto esercente attività d’impresa, e la figura del collezionista di opere d’arte, da inquadrarsi quale “mero” appassionato.

In particolare, il caso oggetto della sentenza in commento trae origine da avvisi di accertamento emanati dall’Agenzia delle entrate a seguito di un’indagine finanziaria espletata per gli anni 2010 e 2011 sui conti correnti di un contribuente dai quali risultavano movimenti di accredito/prelievo.

Siccome il contribuente ha giustificato gli introiti contestati con la vendita di opere d’arte di sua proprietà, il Fisco qualificava le cessioni alla stregua di esercizio di attività commerciale, con conseguente ripresa a tassazione degli imponibili, oltre che ai fini Irpef, anche ai fini Iva e Irap.

La CTP di Novara, con la sentenza n. 15/02/17 del 31.01.2017, censurava gli atti di accertamento, escludendo la sussistenza di un’attività imprenditoriale.

L’Agenzia impugnava la pronuncia dei giudici di prime cure, asserendo nell’appello che solo gli atti isolati di produzione di beni o commercio esulano dall’attività commerciale. Di contro, il contribuente avrebbe posto in essere cessioni reiterate le quali, insieme alla sua competenza in materia, non potevano che configurare la ricorrenza delle principali caratteristiche dello svolgimento di un’attività imprenditoriale: continuità, abitualità e professionalità.

Il contribuente, invece, ribadiva in secondo grado le difese svolte in primo grado a sostegno della correttezza delle sentenza impugnata, eccependo di non aver mai svolto attività commerciale, siccome le vendite delle opere d’arte erano da riconnettersi alla volontà di dismettere il proprio patrimonio artistico non per un intento speculativo, bensì per vicende giudiziarie che avevano compromesso la sua immagine in modo irreparabile. Peraltro, la dismissione del patrimonio artistico era avvenuta nei confronti di conoscenti e di case d’asta professionali, senza aver messo in atto un’organizzazione imprenditoriale con coinvolgimento di risorse umane e materiali.

La CTR Piemonte ha respinto l’appello dell’Agenzia confermando la decisione della Commissione Provinciale.

A parere della Commissione Regionale, infatti, un conto è la dismissione di opere d’arte, avvenuta, come nel caso di specie, in modo massiccio molto tempo dopo le relative acquisizioni da parte del collezionista proprietario, altra cosa è, invece, lo svolgimento di un’attività imprenditoriale diretta alla compravendita di opere d’arte.

Quindi, deve ritenersi che “La dismissione di un patrimonio artistico di proprietà del collezionista non è sottoponibile a tassazione a differenza dei proventi dell’attività d’impresa”.

Peraltro, il fatto che un collezionista acquisti e venda opere d’arte è normale; in tal senso, il tempo dedicato alla creazione e al mantenimento della propria collezione e l’esperienza accumulata in materia artistica non integrano la ripetizione di atti di commercio tipica dell’esercente professionale di un’attività imprenditoriale.

Alla luce di tutto quanto sopra esposto la contestazione dell’Agenzia delle entrate nei confronti del contribuente deve pertanto ritenersi infondata, dovendosi escludere la ricorrenza di un’attività commerciale.

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