29 Febbraio 2016

La dichiarazione perfeziona il reato ex art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000

di Luigi Ferrajoli
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Con la sentenza n. 49570 emessa il 6 ottobre 2015 e depositata il 16 dicembre 2015, la Terza Sezione Penale della Cassazione ha statuito che il reato di dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture false non è punibile a titolo di tentativo e che può considerarsi perfezionato solo con l’effettiva presentazione della dichiarazione riportante elementi passivi fittizi, ai sensi dell’art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000.

In particolare, il caso esaminato dalla Suprema Corte prende le mosse dalla sentenza di condanna della Corte di appello di Milano del 28 gennaio 2015 che aveva ritenuto punibile un commercialista per aver registrato fatture false emesse da una società estera in favore dei propri clienti, destinatari di tali fatture.

Pronunciatasi sul punto, la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza del giudice di secondo grado, in quanto, nelle contestazioni avanzate nei confronti del richiamato professionista, non vi era alcuna traccia della presentazione di dichiarazioni riportanti componenti passive fittizie.

La Terza Sezione Penale ha infatti puntualizzato, da un lato, che per la consumazione del reato de quo è necessario che si realizzi il presupposto fondamentale della presentazione della dichiarazione fiscale contenente gli elementi falsi e, dall’altro, che i fatti antecedenti alla dichiarazione medesima non assumono rilevanza ai fini della contestazione di tale fattispecie, essendo proprio la dichiarazione mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti a rappresentare il momento consumativo del reato di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000.

Come noto, la condotta criminosa oggetto dell’anzidetto disposto normativo (rimasto immutato anche a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 158/2015, se non per la soppressione della parola “annuali” relativamente alle dichiarazioni) consiste nell’indicazione nelle dichiarazioni inerenti le imposte sui redditi o sul valore aggiunto di elementi passivi fittizi attraverso l’utilizzo di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, effettuata col fine di evadere dette imposte.

A tal proposito, i giudici della Suprema Corte hanno puntualizzato che tale previsione ha esplicitato – grazie al testuale richiamo alla “indicazione” in dichiarazione degli elementi passivi quale momento culminante ed indefettibile della condotta illecita – “il momento consumativo del reato sulla stretta condotta della presentazione della dichiarazione stessa con il conseguente abbandono del modello del reato prodromico in precedenza appunto considerato dal legislatore”.

In tal senso ed in assoluta aderenza al dettato normativo, si era già più volte pronunciata la Corte di Cassazione che ha altresì precisato che nell’art. 6 del D.Lgs. n. 74/2000, il legislatore ha previsto che il delitto in questione non possa essere punito a titolo di tentativo (ex multis, Cass. n. 32348/15, Cass. n. 52752/14, Cass. n. 23229/12, Cass. n. 14855/11, Cass. n. 42111/10, Cass. n. 25483/09 e Cass. n. 626/08).

Non si dimentichi infatti che è la stessa Relazione ministeriale al decreto legislativo in oggetto a chiarire che la ratio sottesa all’art. 6 disciplinante il “tentativo” è appunto quella di “evitare che il trasparente intento del legislatore delegante di bandire il modello del reato prodromico risulti concretamente vanificato dall’applicazione del generale prescritto dell’art. 56 c.p.: si potrebbe sostenere, difatti, ad esempio, che le registrazioni in contabilità di fatture per operazioni inesistenti o sottofatturazioni, scoperte nel periodo d’imposta, rappresentino atti idonei diretti in modo non equivoco a porre in essere una successiva dichiarazione fraudolenta o infedele, come tali, punibili ex se a titolo di delitto tentato“.

Alla luce di tali assunti è possibile affermare con certezza che solo tramite la condotta di presentazione della dichiarazione il reato può considerarsi perfezionato” e che, pertanto, a differenza di quanto in precedenza stabiliva l’art.4, lett. g), della L. n. 516/1982 – il quale puniva anche il semplice inserimento nella contabilità di fatture per operazioni inesistenti indipendentemente dall’allegazione alla dichiarazione -, “le condotte pregresse ad essa restano, sul piano penale, del tutto irrilevanti, non potendo essere punite neppure a titolo di tentativo”.

Poiché ha rilevato che il fatto come contestato all’imputato “è in realtà un fatto all’evidenza non connotato da disvalore penale, mancando in esso alcun riferimento alla necessaria ed imprescindibile indicazione in dichiarazione delle fatture emesse”, la Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza della Corte di appello di Milano perché il fatto non era previsto dalla legge come reato.