9 Dicembre 2017

Inerenza: alla ricerca di un punto fermo

di Massimiliano Tasini
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Dopo aver introdotto in un precedente articolo i principi generali in materia di inerenza ai fini delle imposte dirette– con i connessi riflessi in materia di imposta sul valore aggiunto -, andiamo ora ad esaminare alcune questioni affrontate dalla giurisprudenza di legittimità che possono aiutarci ad applicare detti principi sul piano concreto.

Una prima pronuncia di estremo interesse pratico è la sentenza Cassazione n. 21405/2017, nella quale la Corte, dopo avere affermato che l’Amministrazione finanziaria ha titolo per valutare la “congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni”, afferma:

  • da un lato, che tale sindacato non è precluso dalla mancanza di irregolarità nella tenuta nelle scritture contabili o dalla assenza di vizi negli atti giuridici compiuti nell’esercizio dell’attività di impresa;
  • dall’altro, che tale sindacato “non sembra possa spingersi, come postulato dall’amministrazione ricorrente, sino alla verifica oggettiva circa la necessità, o quantomeno circa la opportunità (sia pure secondo una valutazione condotta con riguardo all’epoca di stipula del contratto) di tali costi rispetto all’oggetto dell’attività”.

Questa sentenza afferma pertanto che l’Amministrazione non può spingersi fino al punto di mettere in discussione le strategie commerciali che sono solo riservate all’imprenditore, come confermato da Cassazione n. 10319/2015.

In applicazione di tale principio, la sentenza nega validità alla tesi dell’Amministrazione ricorrente, secondo la quale l’imprenditore, avendo rinunciato a benefici derivanti da un contratto, non essendo giuridicamente tenuto a farlo, avrebbe agito in modo antieconomico, così generando un componente negativo nella determinazione del reddito di impresa ritenuto indeducibile: “il fisco non aveva titolo per interferire nella scelta iniziale della contribuente … analogamente non ha titolo per sindacare, sic te simpliciter, e cioè senza dedurre elementi ulteriori rilevatori di una finalità estranea alla gestione aziendale, la scelta inversa della società, di riassumere su di sè, al “puro costo”, gli oneri sostenuti dalla consorziata nel suo interesse”.

La sentenza della Cassazione n. 14137/2007 ritorna poi sul tema della inerenza delle sanzioni antitrust irrogate all’impresa. Già in passato la Cassazione n. 8135/2011 le aveva ritenute indeducibili in quanto non funzionali alla produzione del reddito (in tal senso anche Cassazione n. 5050/2010, stante l’impossibilità di collegare le sanzioni a ricavi o altri proventi).

La sentenza sviluppa però altri argomenti “forti” a conferma della ritenuta indeducibilità:

  • questa conseguenza non realizza una sanzione addizionale, bensì costituisce l’effetto della natura extraimprenditoriale dell’attività illecita (ed in quanto tale “colpita” dalla sanzione antitrust);
  • detta attività illecita spezza ex sé il nesso di inerenza;
  • la sanzione non ha natura risarcitoria – il che porterebbe a renderla deducibile – in quanto non è direttamente correlata ad un evento di danno.

Il contribuente, ricorrente per Cassazione, aveva altresì dedotto la ritenuta deducibilità richiamando l’articolo 14, comma 4-bis, L. 537/1993, che esclude la deduzione solo per i costi dei fatti-reato, mentre nella specie siamo di fronte ad illeciti non penali. Qui però la Corte è tranciante: la sanzione non è un mezzo dell’illecito, bensì un suo effetto giuridico, e dunque l’argomento difensivo è ritenuto inconferente.

Molto discussa è infine la questione della sussistenza del requisito dell’inerenza delle spese sostenute su beni di terzi. È noto che la giurisprudenza della Cassazione è stata sul punto assai altalenante, con pronunce che hanno messo a durissima prova tante imprese, “ree” di avere pagato lavori su immobili detenuti in locazione resi necessari dall’attività esercitata ma ritenuti indeducibili – e con Iva indetraibile – poichè chi avrebbe dovuto sostenerle sarebbe il proprietario. La sentenza Cassazione 2 agosto 2017 n. 19191 rende giustizia, affermando che non è il titolo di proprietà o di godimento di bene altrui che rende necessariamente inerente una spesa connessa a quel bene, né è l’unico mezzo idoneo a provare la sussistenza di detto requisito. In particolare, il contribuente potrà allora portare in detrazione l’imposta assolta sulle spese di ristrutturazione dell’immobile destinato all’esercizio dell’attività di impresa, anche se non né è il proprietario, ma conduttore o comodatario, essendo irrilevanti la disciplina civilistica ma anche gli accordi intercorsi tra le parti, salvo che i costi siano fittizi e sia perciò configurabile una fattispecie fraudolenta (in termini anche Cassazione n. 6200/2015, nonchè Cassazione n. 1788/2017).

Dunque, tre soluzioni concrete a tre casi molto importanti dal punto di vista pratico. A conferma dell’assoluta necessità di seguire con grande attenzione la giurisprudenza della Suprema Corte.

 

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