18 Luglio 2018

È indetraibile l’Iva relativa alle operazioni inesistenti

di Marco Peirolo
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Con la sentenza resa nelle cause riunite C-459/17 e C-460/17, la Corte di giustizia UE ha affermato che, “per negare al soggetto passivo destinatario di una fattura il diritto di detrarre l’Iva menzionata su tale fattura, è sufficiente che l’amministrazione stabilisca che le operazioni alle quali tale fattura corrisponde non sono state effettivamente realizzate”.

La questione sollevata dal giudice del rinvio era diretta a stabilire se, in presenza di un’operazione oggettivamente inesistente, l’Ufficio, per escludere il diritto di detrazione, possa limitarsi a dimostrare che l’operazione non sia stata effettuata o debba anche provare la malafede del cessionario.

L’articolo 17, par. 1, VI Direttiva CEE, corrispondente all’attuale articolo 167 Direttiva n. 2006/112/CE, dispone che il diritto alla detrazione sorge quando l’imposta detraibile diventa esigibile, vale a dire – in base all’articolo 10, par. 2, VI Direttiva, ora articolo 63 Direttiva n. 2006/112/CEnel momento in cui è effettuata la cessione di beni o la prestazione di servizi.

Ne discende che, nel sistema applicativo dell’Iva, il diritto di detrazione è collegato alla realizzazione effettiva della cessione o della prestazione e, in questa prospettiva, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza della Corte europea, l’esercizio della detrazione non si estende all’imposta che risulti dovuta, ai sensi dell’articolo 203 Direttiva n. 2006/112/CE, solo perché addebitata in fattura.

In coerenza con tale impostazione, la buona o la malafede del soggetto passivo che intende esercitare la detrazione non incide sulla questione se la cessione sia effettuata, ai sensi dell’articolo 10, par. 2, VI Direttiva, ora articolo 63 Direttiva n. 2006/112/CE. Infatti, conformemente alla finalità della disciplina unionale, che mira a stabilire un sistema comune dell’Iva basato, in particolare, su una definizione uniforme delle operazioni imponibili, la nozione di “cessione di un bene”, di cui all’articolo 5, par. 1, VI Direttiva, corrispondente all’articolo 14, par. 1, Direttiva n. 2006/112/CE, ha carattere obiettivo e deve essere interpretata indipendentemente dagli scopi e dai risultati delle operazioni di cui trattasi, senza che l’Autorità fiscale sia obbligata a procedere ad indagini per accertare la volontà del soggetto passivo, o a tenere conto dell’intenzione dell’operatore intervenuto, a monte o a valle, nella catena di cessioni.

Nella prospettiva italiana, l’articolo 21, comma 7, D.P.R. 633/1972, nel testo modificato dal D.Lgs. 158/2015, così recita: “Se il cedente o prestatore emette fattura per operazioni inesistenti, ovvero se indica nella fattura i corrispettivi delle operazioni o le imposte relative in misura superiore a quella reale, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura”.

La Corte di Cassazione ha affermato che lo scopo specifico della citata norma è quello di ricondurre a coerenza il sistema impositivo, fondato sui princìpi della rivalsa e della detrazione e che, mentre in presenza di operazioni esistenti, il presupposto impositivo è costituito dall’effettuazione di operazioni imponibili anche in mancanza di una loro rappresentazione documentale, in presenza, invece, di operazioni inesistenti, il presupposto impositivo non può che essere costituito dal contenuto della fattura; quest’ultima, per il solo fatto di essere emessa, costituisce il titolo rappresentativo del credito d’imposta per il cessionario o committente ed impone, quindi, il pagamento della corrispondente imposta da parte del cedente o prestatore.

Infatti, in assenza della disposizione di cui all’articolo 21, comma 7, D.P.R. 633/1972, in caso di emissione di una fattura per un’operazione inesistente, il cedente o prestatore al quale fosse chiesto il pagamento della corrispondente imposta potrebbe agevolmente contestare il fondamento della pretesa, e cioè la sussistenza del debito d’imposta stante la mancata esecuzione dell’operazione (Cass., 10 giugno 2005, n. 12353).

È in relazione alla natura speciale e “di chiusura” di tale disposizione che, secondo i giudici di legittimità, la medesima, così come incide direttamente sul soggetto emittente la fattura, che diventa debitore d’imposta non già, secondo i princìpi generali, in base all’operazione realmente effettuata, ma sulla base dell’applicazione del solo principio di cartolarità, così incide indirettamente, in combinato disposto con gli articoli 19, comma 1, e 26, comma 3, D.P.R. 633/1972, anche sul destinatario della fattura stessa, il quale non può esercitare il diritto alla detrazione o alla variazione dell’imposta in totale carenza del suo presupposto, cioè dell’acquisto di beni e servizi nell’esercizio dell’impresa, arte o professione.

In linea con la richiamata pronuncia della Corte di giustizia, la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che il divieto di detrazione, per le operazioni inesistenti, prescinde dall’accertamento dell’elemento soggettivo, rappresentato dalla buona o malafede del cessionario (Cass., 17 marzo 2017, n. 6920).

Per quanto riguarda la procedura di variazione per il recupero dell’Iva sulle operazioni inesistenti, l’Amministrazione finanziaria ha chiarito che la nota di variazione è ammessa solo in caso di “errori materiali commessi in sede di fatturazione”, dovendosi ritenere esclusa “nel caso di fatturazione per operazioni inesistenti (circolare 10 gennaio 1974, n. 3/500025) e nello stesso senso si è espressa la giurisprudenza della Corte di Cassazione con la sentenza n. 12353/2015.

In argomento, la Corte di Giustizia ha stabilito che l’esercizio del diritto di detrazione contemplato dalla normativa unionale deve limitarsi alle sole imposte dovute, vale a dire alle imposte corrispondenti ad un’operazione soggetta ad Iva e non si estende all’imposta addebitata solo perché indicata in fattura (sentenza 13 dicembre 1989, causa C-342/87, Genius Holding).

Nella pronuncia in esame, è stato anche affermato che, “per garantire l’applicazione di questo principio spetta agli Stati membri contemplare nei rispettivi ordinamenti giuridici interni la possibilità di rettificare ogni imposta indebitamente fatturata purché chi ha emesso la fattura dimostri la propria buona fede”.

Dato che le operazioni inesistenti sono imputabili al comportamento doloso del contribuente, sembrerebbe corretto ritenere che la procedura di variazione sia vietata.

Occorre, tuttavia, osservare che la Corte UE, nella sentenza di cui alla causa C-454/98 del 19 settembre 2000 (Schmeink & Cofreth e Strobel), è giunta ad una diversa conclusione nel caso in cui il cessionario/committente non abbia detratto l’imposta addebitata nella fattura originaria o, in caso contrario, abbia già provveduto alla relativa rettifica.

Nella situazione considerata, in cui risulta eliminato completamente il rischio di perdita di entrate fiscali, i giudici unionali hanno, infatti, ritenuto applicabile la procedura di variazione, affermando, in particolare, che “il principio della neutralità dell’Iva richiede che l’Iva indebitamente fatturata possa essere regolarizzata, senza che una tale regolarizzazione possa essere subordinata dagli Stati membri alla buona fede di chi ha emesso tale fattura”.

In definitiva, le operazioni inesistenti, anche ove caratterizzate dal dolo specifico di evasione, dovrebbero consentire al cedente o prestatore di recuperare l’imposta addebitata in fattura se il cessionario o committente non l’ha portata in detrazione o, in caso contrario, abbia provveduto alla rettifica.

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