Imprenditore agricolo e limiti nella vendita diretta
di Luigi ScappiniL’articolo 4, D.Lgs. 228/2001, quale risultate per effetto dei vari interventi susseguitesi nel tempo, da ultimo quello di cui all’articolo 58-ter, comma 2, D.L. 104/2020, offre la possibilità agli imprenditori agricoli, derogando alle ordinarie regole amministrative, di svolgere un’attività di vendita al dettaglio dei propri prodotti agricoli, nonché di ulteriori prodotti acquistati presso terzi.
La norma è riservata agli imprenditori agricoli di cui all’articolo 2135, cod. civ., che esercitano l’attività sia in forma singola sia societaria, che risultino regolarmente iscritti al Registro Imprese, di cui all’articolo 8, D.Lgs. 580/1993. È, invece, espressamente inibita, per effetto di quanto previsto dal comma 6, la vendita diretta da parte degli imprenditori agricoli, singoli o soci di società di persone, nonché delle società i cui gli amministratori abbiano riportato, nelle funzioni connesse alla carica ricoperta, condanne con sentenza passata in giudicato, per delitti in materia di igiene e sanità o di frode nella preparazione degli alimenti nel quinquennio precedente all’inizio dell’esercizio dell’attività. Il divieto si applica per il quinquennio decorrente dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna.
La norma, come anticipato, permette di procedere alla vendita non solo dei propri prodotti aziendali, ma anche di quelli acquistati presso terzi.
Dapprima, è proprio il D.Lgs. 228/2001 che, innovando rispetto alle precedenti regole previste dalla L. 59/1963 (che disciplinava la vendita al pubblico in sede stabile dei prodotti agricoli da parte degli agricoltori produttori diretti) ha introdotto la possibilità di cedere, pur nel rispetto della prevalenza dei propri prodotti, anche beni non prodotti direttamente, ma acquistati da terzi, a condizione che appartengano al medesimo comparto agronomico.
Successivamente, il comma 1-bis, introdotto, con decorrenza dal 2019, dall’articolo 1, comma 700, L. 145/2018, ha introdotto la possibilità, da parte degli imprenditori agricoli, di procedere anche alla vendita di prodotti agricoli e alimentari, da intendersi i primi come quelli derivanti dalle attività di cui all’articolo 2135, cod. civ., e i secondi quali beni destinati all’alimentazione umana, non appartenenti al medesimo comparto agronomico dei propri prodotti.
Il rimando a uno o più comparti agronomici diversi da quelli dei prodotti della propria azienda, permette di allargare la gamma di beni offerti; tuttavia, ulteriore limitazione posta è quella per cui tali beni devono obbligatoriamente essere acquistati da altri imprenditori agricoli.
A tal fine, si ritiene necessario acquisire un eventuale certificazione da parte del cedente della sussistenza dei requisiti richiesti.
Anche per i prodotti non rientranti nella propria categoria merceologica, il Legislatore richiede il rispetto della prevalenza, ovverosia è necessario vendere in via prevalente prodotti provenienti dalla propria attività agricola oggetto di lavorazione; infatti, il comma 5 prevede la possibilità di vendita di prodotti derivati, ottenuti a seguito di attività di manipolazione o trasformazione dei prodotti agricoli e zootecnici, finalizzate al completo sfruttamento del ciclo produttivo dell’impresa.
Riassumendo: è ammessa la vendita di prodotti propri e di terzi appartenenti allo stesso comparto agronomico, nonché di altri prodotti agricoli e alimentati non rientranti al medesimo comparto agronomico a condizione, in questo caso, che il cedente sia anch’egli un imprenditore agricolo.
A quanto sin qui detto, si deve aggiungere l’ulteriore limite posto dalla norma, infatti, non è sufficiente per poter azionare le deroghe alle regole ordinarie previste dal D.Lgs. 114/1998, rispettare il “semplice” requisito della prevalenza; è previsto, infatti, un tetto massimo ai ricavi derivanti dalla vendita dei prodotti “non aziendali” che, nell’anno solare precedente, non devono avere superato il limite di 160.000 euro per gli imprenditori individuali e di 4 milioni di euro per le società.
In realtà, oltre ai prodotti agricoli e alimentari, è possibile vendere anche altri beni non strettamente agricoli, ma comunque legati all’attività esercitata. In tal senso, si è espresso in passato il Consiglio di Stato con la sentenza n. 131/2016, con cui, in riferimento a un vivaista, è stato affermato che “se ad un’azienda florovivaistica deve essere permessa la vendita dei propri prodotti e dei beni strettamente riconducibili alla sua attività, ciò non può comportare che la medesima si renda attiva nella vendita di prodotti che solamente in senso estremamente lato possono avvicinarsi al giardinaggio; dai barbecue carrellati ai vasi in ceramica, dalle padelle alle graticole, dai tavoli e sedie in vimini o in plastica alle case in legno prefabbricate ad uso deposito da giardino.”. in altri termini, le regole di cui all’articolo 4, D.Lgs. 228/2001, devono essere letta ammettendo la commercializzazione anche di beni non direttamente derivanti dall’agricoltura, ma ad essa strettamente connesse.