28 Luglio 2022

Il veicolo estero per risparmiare imposte. Ma si può?

di Ennio Vial
Scarica in PDF
La scheda di FISCOPRATICO

La delocalizzazione all’estero è un fenomeno ormai consolidato ed inarrestabile. Le vicende geo politiche degli ultimi periodi potranno portare ad un ridisegno geografico di questa esternalizzazione, ma non potranno certo interrompere un processo ormai consolidato.

La delocalizzazione può comportare, anche, più o meno significativi risparmi fiscali.

Questo contesto, tuttavia, porta taluni a pensare che sia sufficiente costituire una società estera in un Paese a fiscalità più bassa rispetto a quella italiana per poter usufruire di una riduzione del carico tributario.

Non è infrequente, nella pratica professionale, di sentirsi porre la seguente richiesta: “Dottore, so che lei si occupa di fiscalità internazionale. Vorrei costituire una società all’estero per pagare meno imposte”.

A fronte di tale intenzione, tuttavia, non si può far seguire, di solito, né una effettiva localizzazione produttiva, né, almeno, una delocalizzazione personale, ossia, un trasferimento della residenza fiscale della persona fisica all’estero.

Il progetto di riorganizzazione diventa, quindi, molto basico e si sostanzia nella costituzione di una società in un Paese con una fiscalità più mite della nostra, generalmente amministrata da soggetti italiani o da teste di legno locali, che fattura mere triangolazioni se non addirittura prestazioni inesistenti.

Di fronte a queste richieste, il professionista, superata una fase di iniziale tristezza connessa al fatto che una richiesta di consulenza in materia di fiscalità internazionale avrebbe potuto portare l’analisi di una serie di questioni ben più interessanti e professionalmente appaganti, non può far altro che dare risposta negativa.

Senza scomodare in questa sede questioni quali la fatturazione di operazioni inesistenti, ci si può semplicemente limitare a constatare che una società estera così impostata può, a seconda dei casi, essere “attaccata” dall’Amministrazione finanziaria, sotto due diversi punti di vista:

  • l’esterovestizione;
  • l’interposizione.

È banale osservare che una società amministrata in Italia è considerata fiscalmente residente nel nostro paese in base all’articolo 73, comma 3, Tuir. La Convenzione contro le doppie imposizioni non potrà essere di aiuto.

Sul tema, inoltre, non va trascurata nemmeno la recente risposta ad interpello n. 82/2022 che ha ritenuto interposta una società di capitali inglese che fatturava i compensi per diritti all’immagine del socio, da poco trasferitosi in Italia.

Ad ogni buon conto, questi fenomeni vengono contrastati anche dalla mera applicazione della normativa interna.

L’articolo 110, comma 7, Tuir, in tema di transfer pricing, stabilisce che le imprese localizzate in Paesi diversi devono comportarsi come parti indipendenti e conseguire, quindi, margini di profitto in proporzione alle funzioni svolte ed ai rischi assunti. La conseguenza è che una società che non fa niente, non avrà alcun margine di utile.

Un’ulteriore norma da considerare, inoltre, è anche quella relativa alla disciplina cfc di cui all’articolo 167 Tuir.

Una società estera controllata che svolge un’attività passiva in un Paese a fiscalità privilegiata comporta la tassazione per trasparenza dei redditi da questa prodotta in capo al socio italiano controllante.

Quand’anche la tassazione per trasparenza fosse esclusa per assenza di una vera e propria attività passiva i dividendi impatriati sarebbero, se provenienti da Paesi diversi dalla Ue o dallo Spazio economico che scambia informazioni, considerati paradisiaci.