3 Giugno 2025

Il presupposto impositivo delle obbligazioni di fare, di non fare e di permettere alla base delle transazioni

di Luciano Sorgato
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La scheda di FISCOPRATICO

La Corte di cassazione, con una recente sentenza (n. 33296/2024), ha ritenuto esclusa da Iva la transazione volta a rinunciare agli atti di causa, rappresentando che le prestazioni di fare, non fare o permettere non possono essere considerate rilevanti ai fini Iva, se raccordate alle condotte processuali, come la rinuncia gli atti o all’azione, relative ad una lite attuale o in fieri, mancando il presupposto del consumo secondo la normativa comunitaria. Qualora, quindi, non trattasi di transazione novativa, o almeno mista con l’insorgenza di nuove obbligazioni rispetto all’originario rapporto litigioso, il presupposto d’imposta non insorge, mancando il fondamento essenziale costituente la causalità costitutiva dell’Iva: l’atto di consumo. L’Iva è, infatti, un’imposta generale sui consumi e da tale prerogativa comunitaria discende che, nonostante l’articolo 3, comma 1, D.P.R. 633/1972, assuma come presupposto oggettivo le obbligazioni di fare, non fare e di permettere in genere, la latitudine della loro rilevanza impositiva rimane condizionata dalla verifica se l’oggetto di tali obbligazioni è compatibile con un atto di consumo.

Da tale condivisibile ermeneutica deriva che la mera rinuncia alla tutela giurisdizionale –  che connota l’oggetto della transazione ex articolo 1965, cod. civ. –  manca della nozione comunitaria di consumo; inadatta, quindi, a riassumere il presupposto oggettivo ai fini Iva. Così testualmente il giudice di Cassazione: “Nella misura in cui le prestazioni di fare, di non fare o di permettere riguardino reciproche concessioni in ordine alle contrapposte pretese, con l’assunzione di impegni relativi alle condotte da tenere sul piano processuale attuali o future (come la rinuncia agli atti o all’azione) non emerge alcuna prestazione rilevante ai sensi dell’art 3 del DPR 633/72. Si tratta infatti di prestazioni che non sono correlate ad un consumo nell’accezione del sistema comunitario dell’IVA, ma costituiscono piuttosto l’esito di un atto dispositivo attraverso il quale vengono regolate le contrapposte pretese sulla res litigiosa”. Tale ermeneutica va senz’altro condivisa e la sua importanza risiede nel non raccordare alla generica versione letterale delle obbligazioni di fare, non fare o di permettere, il fondamento costitutivo-causale del tributo. È solo quest’ultimo che coordina la rilevanza impositiva di ogni prestazione di servizio, avendo il primato sulla mera enunciazione della categoria.

Tale indirizzo ermeneutico è senz’altro esportabile anche nel comparto delle imposte sui redditi ed in particolare in tema di transazioni per cause di lavoro. Di recente, due sentenze della Corte di Giustizia Tributaria di I grado di Rovigo (sentenze n. 122/2024 e n. 80/2025, Sezione I) hanno ritenuto di ricondurre all’articolo 67, comma 1, lettera l), Tuir, la somma erogata da un gruppo bancario nell’ambito di una transazione definita con alcuni lavoratori dipendenti che rivendicavano nei confronti della banca un inadempimento contrattuale. Tale condotta antigiuridica era stata riconosciuta nella sentenza del giudice dell’appello ed impugnata nel ricorso per Cassazione dalla Banca. L’articolo 67, comma 1, lettera l), Tuir, testualmente, dispone che costituiscono redditi diversi: “I redditi derivanti dall’attività di lavoro autonomo o dalla assunzione di obbligazioni di fare, non fare o di permettere”. L’indirizzo interpretativo sopra rappresentato, che esautora di rilevanza autonoma la mera versione letterale della triade di obbligazioni, richiedendo la verifica della loro compatibilità con l’essenza causale dell’obbligazione tributaria, va applicato anche in ordine a tale tipicità di reddito diverso e, a tale proposito, l’esame deve dipartire dall’affiancamento di tali obbligazioni all’attività di lavoro autonomo occasionale e proseguire con la verifica se una condotta processuale di “non azione” riassuma la connotazione del c.d. “reddito prodotto” costituente il fondamento a regime alla base della rilevanza impositiva dei redditi diversi.

Partendo dall’esame dell’affiancamento legislativo delle obbligazioni di fare, non fare e di permettere all’attività di lavoro autonomo, esso obbliga a ricercare un loro comune denominatore, nel senso che la triade delle obbligazioni deve dotarsi della medesima prerogativa dell’attività, che non coincide con un atto giuridico istantaneo, isolato, richiedendo l’intersezione di più atti omogenei sul piano dello scopo. In altri termini, per aversi attività occorre il rinvenimento di una dinamica unitaria di atti predefiniti sul piano del fine da perseguire e, quindi, un quid pluris rispetto all’atto giuridico isolato ed istantaneo. Se tale è il significato semantico di attività, ne deriva che anche le obbligazioni di fare, non fare e permettere devono uniformarsi a tale caratteristica di identità fiscale.

Una mera rinuncia alla tutela giurisdizionale e, quindi, una “non azione” non appare potersi ricondurre al significato economico-giuridico di attività. Inoltre, si deve considerare che i redditi diversi sono ispirati all’indicata prerogativa del “reddito prodotto”, che si fonda sul raccordo con una qualche energia produttiva. In altri termini, anche se nel progredire del tempo nella casistica dei redditi diversi sono state legislativamente introdotte fattispecie imponibili riconducibili al diverso paradigma del c.d. reddito entrata, tali fattispecie, anche se sempre più invadenti la categoria dei redditi diversi, continuano a rappresentare delle eccezioni, rispetto al fondamento causale a regime del reddito prodotto. L’articolo 67, comma 1, lettera l), Tuir, partecipa della casistica originaria dei redditi diversi introdotta nella prima versione del Tuir del 1988, tutta ricongiunta alla natura del reddito prodotto che, a differenza del “reddito entrata”, non fonda la rilevanza impositiva sulla sola percezione di una somma di denaro, ma richiede che alla base sia rinvenibile un intento speculativo/lucrativo, una qualche dinamica di facere o l’impiego di energie lavorative o produttive.

Se alla base dell’erogazione della somma di denaro vi è unicamente una condotta illecita del datore di lavoro che ha precluso al lavoratore un’opzione di carriera contrattualmente prevista (come nei due casi delle citale sentenze del giudice di Rovigo), allora l’obbligazione di non fare (ossia la rinuncia alla tutela processuale) non trova alcun raccordo causale proprio con l’indicato paradigma del “reddito prodotto”, che presiede la rilevanza impositiva, nel comparto delle imposte dirette, delle obbligazioni di fare, non fare e di permettere. La citata sentenza della Corte di cassazione ha il pregio di indicare l’ermeneutica da seguire ai fini della verifica della rilevanza fiscale di tale triade di obbligazioni, da assumere non in un’accezione meramente statico-letterale, ma in condivisione con il fondamento causale-costitutivo del presupposto d’imposta, che nell’Iva è il consumo e nei redditi diversi è la considerazione fiscale del c.d. reddito prodotto. Un conto, quindi, è, ad esempio, un’obbligazione di non azione processuale e altro è un’obbligazione negativa di non concorrenza economica persistente nel tempo o un’obbligazione positiva di permettere l’esercizio di certe facoltà, e altro è una mera rinuncia alla tutela giurisdizionale di un diritto leso.