Il CPB, le imposte anticipate e le prospettabili questioni di censura costituzionale (II parte)
di Luciano SorgatoNella prima parte dell’approfondimento sulla rilevanza fiscale delle differenze temporanee nel computo liquidatorio del c.d. reddito concordatario si è rappresentato come l’eventuale maggior reddito necessario per l’adeguamento fiscale al reddito concordatario partecipi del solo modello di normale redditività che deriva dall’ordinario ciclo produttivo di periodo (nella sostanza, si è sottolineato, risultando i costi d’esercizio già dalle scritture contabili, l’integrazione non può che raccordarsi con gli ordinari ricavi attesi dal meccanismo alla base della determinazione concordataria, ma non conseguiti nell’anno fiscale).
Tale integrazione non genera, all’evidenza, gli effetti distorsivi della cd doppia imposizione, dal momento che, ai fini della liquidazione, vengono solo addizionati ricavi stimati del tutto estranei a plurime articolazioni impositive.
Raccordando, ora, quanto sinora esplicitato ai compensi degli amministratori maturati in un periodo fiscale e pagati in un altro periodo soggetto al regolamento concordatario, si viene a determinare a seguito:
- della tassazione del compenso nel periodo d’imposta della maturazione (per la mancanza del presupposto dell’erogazione alla base del relativo diritto di deduzione);
- della tassazione dell’emolumento nei confronti dell’amministratore percipiente nel periodo fiscale dell’erogazione;
- l’irrilevanza del medesimo nei confronti della società in virtù del regolamento liquidatorio concordatario, un chiaro esempio di doppia tassazione incentrata sul medesimo presupposto d’imposta vietato dall’articolo 163, Tuir.
Da una parte, quindi, trattasi di un componente reddituale, che, anche se non esplicitamente incluso nei componenti straordinari da commisurare con criterio separato (sopra individuati), partecipa dei loro stessi fondamenti causali, in quanto pacificamente non includibile nella rappresentata componente di reddito presuntivo fondata sul modello di normalità produttiva del periodo fiscale e neppure ricongiunta al principio della competenza cui sempre la dinamica reddituale ordinaria si raccorda e dall’atra genera la distorsione impositiva della doppia tassazione liquidata sul medesimo presupposto d’imposta.
A tal proposito, la Corte di Cassazione, con la sentenza n 12891/2024 si è pronunciata proprio in ordine ad una controversia relativa alle prescrizioni dell’articolo 163, Tuir, in combinato disposto con l’articolo 1, comma 1, Tuir, convenendo che il divieto della doppia imposizione è principio generale dell’ordinamento tributario. Il divieto della doppia tassazione “neppure consentito nei confronti di soggetti diversi” (articolo 163, Tuir) viene avvertito come principio fondamentale nella verifica presidiata in Costituzione della dinamica del prelievo impositivo, (si cfr. R. Lupi, “Diritto Tributario”, Giuffrè Editore; F. Tesauro, “Istituzioni di diritto tributario”, Utet).
Per Autorevole Dottrina (G. Falsitta, “Istituzioni di diritto tributario – Parte generale”, Cedam Editore) l’articolo 163, Tuir, ed il principio in esso enunciato non si contrassegna alla stregua di un principio generale di governo dei vari tipi di reddito, ma come fondamentale “norma di orientamento costituzionale” mai eludibile nella conformazione strutturale dell’obbligazione tributaria.
Non trattasi di un principio di diritto tributario genericamente raccordato con la fase attuativa del tributo, ma piuttosto di un presidio che con nesso diretto partecipa della struttura, legislativamente indisponibile, dell’obbligazione tributaria. Sotteso a tale divieto vi è, infatti, la fondamentale necessità di evitare che la ricchezza connessa ad un qualsiasi fatto economico non abbia da essere interamente commutata in prestazione erariale, impedendo che al ciclo imprenditoriale privato che l’ha generata, residui quella parte di essa che gli consente di reiterarsi e di consolidarsi. In altri termini, il doppio prelievo sul medesimo indice di ricchezza trasformerebbe tendenzialmente la ricchezza privata in totale ricchezza pubblica, in spregio ai principi costituzionali che tutelano e stimolano l’iniziativa privata (articolo 41, Costituzione).
Lo scrutinio, quindi, della struttura legale del reddito concordatario non può eludere tale fondamentale principio di salvaguardia costituzionale dell’obbligazione tributaria, per cui, a parere di chi scrive, appare lecito il ricorso ad un’interpretazione costituzionalmente orientata che consenta al pari delle minusvalenze, delle sopravvenienze passive e delle perdite su crediti la deducibilità extraconcordataria delle componenti negative non considerate nella predeterminazione legislativa del reddito concordatario, allo scopo di evitare irragionevoli discriminazioni in ordine a componenti negativi assumibili tutti come straordinari rispetto ad una logica produttiva coesa con la ratio di un modello di normalità imprenditoriale, rigorosamente avversate in materia tributaria dal costituzionale principio dell’uguaglianza (articolo 3, Costituzione).
La Corte Costituzionale, con le sentenze n. 42/1980 e n. 179/1976 ha insegnato che deve sempre esservi un raccordo coerente tra la disciplina impositiva e l’autentica ratio del tributo come legislativamente pensata.
Da tali citate sentenze la dottrina e la giurisprudenza hanno tratto l’imprescindibile principio di coerenza interna tra il tributo ed il relativo presupposto da tassare, assumendolo ad indefettibile parametro di costituzionalità. Per il giudice delle leggi una norma non è incostituzionale perché da essa può essere fatto derivare un regolamento disciplinare non conciliabile con la Costituzione, ma in quanto alla norma non è in alcun modo possibile raccordare una disciplina conciliabile con la Costituzione.
Di nessuna pertinenza apparirebbe essere l’obiezione che il concordato è su base volontaria, perché anche se un istituto che interagisce con il prelievo impositivo non è legislativamente vincolato, esso deve sempre dimostrare piena coerenza tra le sue prerogative fondative e le sue articolazioni attuative, mentre nel caso in esame non appare di alcuna giustificazione una diversa previsione del riporto fiscale delle perdite da periodi d’imposta non soggetti al regolamento concordatario ed il riporto di un componente negativo già tassato per competenza, ma deducibile per cassa.
Ovviamente, la soluzione migliore appare essere quella di un intervento di ricognizione correttiva da parte del legislatore che, in luogo di una selezione casistica (che rischierebbe di rivelarsi ulteriormente incompleta) disponga per il tramite di un principio generale che a regime disciplini l’intersezione della componente presuntiva del reddito con le componenti che vi rimangono estranee.