9 Ottobre 2013

Il concorso dell’extraneus nei reati fallimentari

di Luigi Ferrajoli
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Il consulente di una società fallita, che riveste anche il ruolo di componente del consiglio di amministrazione di società partecipata che ha beneficiato, poco prima della dichiarazione di fallimento, di un consistente aumento di capitale, risponde del reato di bancarotta fraudolenta per distrazione.

E’ quanto statuito in tema di reati fallimentari dalla sezione V della Corte di Cassazione con la recentissima sentenza n.40332 del 30/09/2013.

La vicenda riguarda un commercialista condannato dalla Corte di Appello di Milano per i reati di cui agli articoli 216, 219 e 223 L. Fall. in concorso con l’amministratore di una società dichiarata fallita dal Tribunale di Monza.

A seguito del fallimento, il curatore nominato dal Tribunale aveva accertato che, a circa un mese di distanza dalla notifica di un atto di precetto per l’importo complessivo di circa Lire 236.000.000, la società poi fallita aveva versato, a titolo di “aumento del capitale sociale”, la somma di Lire 230.000.000 in favore di una società partecipata che aveva tra gli amministratori proprio il commercialista della società fallita; inoltre, qualche giorno dopo, erano stati pagati ingenti compensi ai due amministratori della società partecipata.

Secondo i giudici di merito, le predette attività, anche considerata la ravvicinata cadenza temporale in cui si sono susseguite, erano finalizzate a svuotare la società fallita delle risorse economiche necessarie per soddisfare le pretese della creditrice.

A parere della Corte di Appello, tale circostanza era comprovata dal fatto che, non essendo state utilizzate le somme di denaro già indicate per incrementare il capitale sociale, il cui aumento, nonostante fosse stato deliberato, non aveva avuto luogo, era venuto a mancare il titolo giustificativo per ritenere regolare il trasferimento dei fondi.

Ulteriore circostanza a sostegno della tesi accusatoria era inoltre “la compenetrazione di interessi tra gli imputati”, resa palese dal fatto che il commercialista della società fallita, domiciliata presso il suo studio dove era stato notificato il precetto, fosse anche componente del consiglio di amministrazione della società partecipata.

Il consulente ha proposto ricorso per Cassazione lamentando, tra l’altro, l’erronea applicazione degli artt. 216, comma 1, n. 1, 219, comma 2, n. 1 e 223, comma 2, L. Fall., e 110 c.p. poiché la corte territoriale avrebbe omesso di considerare che il versamento in favore della società partecipata non era stato deciso con la coscienza e volontà di sottrarre definitivamente il relativo importo alle ragioni creditorie, con conseguente carenza dell’elemento soggettivo del dolo.

Il ricorrente ha inoltre eccepito che, dovendosi qualificare quale semplice extraneus nel reato proprio commesso dall’amministratore unico della società fallita, al fine di affermarne la responsabilità penale per il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione si sarebbe dovuta dimostrare l’esistenza di un suo contributo causalmente rilevante ai fini del verificarsi dell’evento distrattivo.

Secondo la difesa, l’avere condiviso una decisione già assunta dall’amministratore della società fallita non avrebbe integrato alcuna forma di concorso morale nel reato; inoltre nessun contributo materiale alla realizzazione dell’illecito si sarebbe potuto addebitare al ricorrente nella sua qualità di componente del consiglio di amministrazione della società partecipata in favore della quale, a titolo di aumento di capitale sociale, era confluita la somma oggetto di distrazione, anche perché la ricezione di una somma di denaro giustificata da una causale lecita doveva considerarsi quale condotta meramente passiva.

Il ricorso è stato respinto: a parere della Suprema Corte infatti il giudice dell’appello aveva legittimamente ritenuto sospetti i versamenti ravvicinati di ingenti somme di denaro a favore della partecipata, formalmente imputati in conto aumento di capitale; tale operazione economica, secondo la Cassazione, ha avuto chiaramente lo scopo di lasciare insoddisfatte le ragioni creditorie della società che aveva notificato il precetto e, subito dopo, presentato istanza di fallimento.

Ed inoltre la Corte di Cassazione ha ritenuto che la condotta del commercialista fosse “assolutamente idonea a configurare un efficiente contributo causale all’attività distrattiva, causativa del fallimento della società”; d’altra parte, rammenta la Cassazione, come da tempo affermato dalla giurisprudenza di legittimità (si veda la sentenza n. 39387 del 27/06/2012 della Cassazione), “a configurare la responsabilità dell’extraneus per concorso nel reato proprio sono sufficienti l’incidenza causale dell’azione dello stesso extraneus e la sua consapevolezza del fatto illecito e della qualifica del soggetto attivo che ha posto in essere il fatto tipico”.