22 Dicembre 2014

Il cielo in una stanza

di Michele D’Agnolo
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Spesso sottovalutiamo l’importanza degli
spazi architettonici degli edifici rispetto alle attività professionali che ospitano. Eppure l’effetto che la dimensione e sistemazione interna degli spazi hanno sulle attività produttive in genere e su quelle professionali in particolare è
estremamente rilevante. Uno studio ben dimensionato e ben disposto internamente può guadagnare anche il 30% di produttività rispetto ad uno studio in cui le stanze e gli spazi sono inadeguati, mal distribuiti, mal sistemati o male attrezzati.
Non stiamo pensando solo allo studio di radiologia che ha dovuto rifare le fondamenta del condominio e squarciare una parete per calare nel seminterrato la macchina per fare le TAC, che pesa due tonnellate e costa due milioni di euro. Anche le attività amministrative proprie degli studi economico-giuridici e tecnici incidono e sono incise significativamente dal
layout dello studio.
I professionisti quasi sempre decidono in proprio quale immobile locare o acquistare per lo svolgimento dell’attività professionale e come ripartire lo spazio all’interno. In base al principio di tuttologia che li caratterizza, è raro che si facciano seguire da un esperto. A loro parziale discolpa va detto che è raro trovare un vero esperto di layout di uffici. Molti sono infatti gli
interior designer capaci di trovare soluzioni esteticamente gradevoli, mentre pochissimi sono quelli che considerano il fatto che lo studio è un luogo produttivo la cui catena di montaggio è rappresentata proprio dalle stanze, dalle scrivanie e dagli scaffali. Inoltre lo
studio, vendendo” beni esperienza”, può
comunicare ex ante la sua professionalità solo attraverso una serie di
proxy tra le quali una delle più importanti è rappresentata dalla
propria sede. La disposizione e l’arredo della sede dovrebbe comunicare ai clienti un senso di ordine, di semplicità, di pulizia, di efficienza. Meglio uno studio meno centrale, più piccolo o più disadorno che uno studio che trasmette vecchiezza, disordine o abbandono.
Di regola, poi, lo sviluppo degli studi professionali avviene come la crescita dei bambini, in modo tumultuoso sproporzionato e inaspettato. In giro per l’Italia trovo sempre studi
“wonderbra”, troppo cresciuti dentro a spazi piccolissimi oppure studi “scatola di cioccolatini”, con contenuti piccolissimi dentro a contenitori enormi. Nel primo caso si vuole magari evitare di disperdere l’avviamento dovuto alla posizione, o più spesso non ci sono immobili disponibili a prezzi adeguati nelle adiacenze, o ancora si ha l’impressione che il momento di sviluppo di cui lo studio gode non sia perenne. E però manca la privacy e spesso financo la possibilità di riporre il casco del motorino o la borsa degli addetti. Nel secondo caso, spesso lo studio è la pesante eredità di un divorzio professionale o di una modalità di esecuzione del lavoro non più al passo con i tempi. Si pensi allo studio che si restringe perché nato per l’archiviazione cartacea passa alla smaterializzazione e alla conservazione sostitutiva liberando spazi improduttivi.
Molto spesso lo studio organizza i propri spazi per addizioni successive. Ogni volta che arriva qualcuno in più, gli si trova uno spazio cercando di cambiare il minimo possibile nella disposizione delle stanze e soprattutto delle carte. Spostare gli archivi è un autentico delirio.
Ecco allora che i nostri studi hanno spesso
distribuzioni degli spazi e degli ambienti non adeguati alla massima produttività e talvolta nemmeno alla sicurezza sul lavoro.
Sto pensando a quello studio che aveva l’ingresso posizionato con lo sportello posto in cima ad una scala in modo che salendo, la reception sembrava a colpo d’occhio sempre vuota. I clienti più timidi si fermavano spaesati, mentre i più disinibiti riuscivano a penetrare nei meandri più reconditi dello studio prima che l’addetto potesse inseguirli e fermarli. Il primo contatto con lo studio risultava sempre sfilacciato.
Un primo principio, molto semplice, è che
dovremmo avere vicine le cose e le persone che ci servono maggiormente e più frequentemente e più lontane le altre. Qualche tempo fa abbiamo spostato nel mio studio l’area dichiarazioni delle persone fisiche, trasferendola in una stanza vicina all’ingresso dello studio. A ragion veduta, si tratta infatti dell’area che richiede il maggior numero di accessi da parte del pubblico, e non aveva senso far girare la gente all’interno dello studio e far fare chilometri alle nostre ragazze e ragazzi per raggiungere la reception e la sala riunioni.
Altre volte è la
quantità di gente all’interno di una stanza ad essere eccessiva. Uno studio notarile che si è dotato di un open space di sei persone addette alla redazione degli atti ha sperimentato sulla propria pelle quello che ogni musicista che abbia suonato in un gruppo rock sa perfettamente: quando arriva un nuovo suonatore, tutti alzano il volume del proprio strumento e per sommatoria si raggiunge un volume assordante.
L’addetto alla stesura degli atti telefona infatti con molta frequenza ai clienti, alle agenzie immobiliari e quant’altro, per cui mettere troppi impiegati assieme significa condannarli al male di testa, all’inefficienza, al calo di concentrazione, agli errori. Pensate inoltre a cosa succede in una sistemazione del genere tutte le volte che al mattino arrivano alla spicciolata degli impiegati che hanno un orario flessibile. Fino a quando l’ultimo sarà arrivato, gli altri saranno continuamente distratti dagli innocenti saluti delle new entry. Ferme restando le legittime esigenze dei lavoratori e ancor più quelle delle lavoratrici,
non è un caso che a scuola suoni ancora la campanella e in fabbrica la sirena. Il discorso sarebbe completamente diverso se mettessimo nello stesso open space persone che hanno un compito con un minore tasso di relazione interna ed esterna. Pensiamo allo stesso studio notarile che accorpa in un unico ambiente le persone addette agli adempimenti successivi alla stipula. qui il bisogno di relazione è più limitato e riguarda per lo più sporadici contatti con il notaio o altri colleghi di studio che possono essere raggiunti di persona nelle loro stanze, senza disturbare i colleghi. In questo caso un grande spazio condiviso sarà dunque molto più appropriato. La quantità ideale di persone da sistemare negli spazi dipende molto dalla tipologia di attività da realizzare e dall’interazione delle persone con gli altri.
Un effetto spesso sottaciuto della distribuzione degli ambienti è quello di
creare automaticamente nuovi gruppi. Separare persone dentro stanze diverse crea automaticamente dei piccoli clan. Non dobbiamo stupirci se smistando le persone in cubicoli diversi si possano creare ipso facto incomprensioni o contrapposizioni. Gli office manager devono allora lavorare per
ruotare frequentemente le persone, come fanno gli animatori dei villaggi turistici con gli ospiti timidi, che sono costretti amabilmente a cenare ogni sera con degli sconosciuti.
Anche la stanza tutta da soli è ormai superata, anche per i professionisti. È molto meglio essere in due. Intanto perché spesso uno dei due non c’è perché sta dal cliente o presso gli uffici pubblici. E inoltre perché ci si contamina professionalmente, trasmettendo conoscenza quasi per osmosi. Ci si ascolta quando si telefona con i clienti e ci si evita reciprocamente più di qualche gaffe. Anche qui, come nelle pattuglie della Squadra Volante, è bene cambiare compagno o compagna di stanza ogni 3-4 anni. Siamo diventati più salutisti: le vecchie liti che contrapponevano fumatori con non fumatori si sono evolute e oggi vedono aspri confronti tra freddolosi e calorosi.
La migliore separazione è quindi una via di mezzo. Non quella quasi inesistente dell’open space né quella totalmente settaria delle pareti. La strutturazione ideale per i tramezzi di uno studio professionale è data da quel “vedo ma non vedo” delle pareti vetrate e semi offuscate stile stazione di polizia americana dei telefilm.
Dovremmo avere delle stanze alla Gino Paoli, senza più pareti né angoli, che ci permettano di inaugurare una stagione di voyeurismo burocratico fatto anche di piccole comunicazioni non verbali che ci permettano di allinearci meglio nel nostro lavoro. Pensate di non dover più chiedere alla segretaria se il professionista è arrivato perché banalmente lo intravvedi e con la mano lo preghi di passare anche da te. Immaginate di poter verificare da soli se il capo è di umore adatto a ricevere una nostra visita leggendogli il broncio.  
Anche la poca strumentazione che utilizziamo incide sul layout dello studio. Le stampanti costano e fanno confusione, quelle laser per di più producono ozono. Quindi ne vanno acquistate poche, e se sviluppano volumi significativi vanno tenute segregate dalle persone che le utilizzano. Ma non possono essere troppo poche né troppo lontane, altrimenti trasformiamo i nostri dipendenti in galoppini e l’area stampanti in un piccolo agorà.
I server hanno bisogno di spazi tutti per loro. Fanno confusione, hanno necessità di temperature particolari, dovrebbero essere tenuti anche per norma di legge lontani da occhi e mani indiscrete.
La sala riunioni e la sala di aspetto dovrebbero essere, per quanto possibile, vicine all’ingresso. Occorrerebbe puntare per quanto possibile ad una separazione netta tra la zona aperta al pubblico e il back office. Avete mai visto un ristorante che accoglie gli ospiti in cucina?
Gli ambienti caldissimi, freddi, umidi, poco areati, male illuminati, con soffitti troppo bassi o finestre troppo piccole, al di là dei limiti di legge che li rendono o meno abitabili e utilizzabili per una attività di lavoro, tendono comunque a deprimere le persone. E per un lavoro che sostanzialmente consiste nel risolvere i problemi degli altri, l’umore e la motivazione sono una cosa davvero importante. Gli ambienti troppo luminosi, o non dotati di opportuni strumenti per la protezione dai raggi del sole sono anch’essi inadatti per le attività di ufficio, che hanno una componente visiva preponderante.
Lo studio su più sedi o su più piani è un altro piccolo capolavoro di inefficienza. Tipico delle nostre città medievali dove gli spazi non erano disegnati per accogliere attività che avrebbero invece il massimo beneficio dall’essere sistemate tutte sullo stesso piano. Magari si è fatto l’investimento immobiliare un poco alla volta, scontrandosi sempre con l’indisponibilità del dirimpettaio che si tiene inutilmente 45 metri spaiati di magazzino pur di non venderlo a te. La distribuzione su un unico piano delle attività professionali avrebbe anche un significato simbolico, in funzione della sostanziale assenza di gerarchie che caratterizza l’attività intellettuale.
Un altro aspetto spesso ignorato è la cura dei bagni. Se nelle toilette può capitare il cliente, sarebbe opportuno che fossero ristrutturate al pari del resto dell’appartamento. Spesso per motivi di budget invece sono lasciati come erano dal secolo di edificazione. Altre volte sono usati come magazzini di merci o cespiti fuori uso, o in qualche caso ospitano perfino le raccolte delle riviste professionali. Forse è un modo per esprimere un giudizio sulla qualità degli scritti oppure riponendole colà vengono semplicemente più comode per l’approfondimento?
L’adeguatezza del layout e delle postazioni di lavoro dovrebbe essere rivista almeno annualmente e in ogni caso quando ci sono cambiamenti significativi della qualità o della quantità o della tecnologia del lavoro.
Dopo tutto questo campionario, come non concordare con quel famoso statista che sosteneva che noi pensiamo a cambiare gli edifici mentre poi sono gli edifici a cambiare noi.