11 Marzo 2021

Esterovestizione societaria e libertà di stabilimento

di Marco Bargagli
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La scheda di FISCOPRATICO

Con il termine “esterovestizione societaria” si è soliti indicare la dissociazione tra la “residenza fiscale reale” della società o dell’ente (localizzata in Italia) e la “residenza fiscale fittizia” (situata formalmente all’estero, perlopiù in Stati o territori a fiscalità privilegiata, in corrispondenza della sede legale).

L’individuazione della residenza fiscale effettiva esplica dirette conseguenze sotto il profilo impositivo, in quanto la persona giuridica residente nel territorio dello Stato è assoggettata a tassazione per i redditi ovunque prodotti nel mondo, in base al principio della tassazione su base mondiale (c.d. “world wide taxation”).

Di conseguenza, individuata una società esterovestita la stessa dovrà poi presentare la dichiarazione dei redditi in Italia, con attribuzione coattiva di un codice fiscale e di un numero di partita Iva.

Anche la giurisprudenza di legittimità ha nel tempo definito l’esterovestizione, qualificata come la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero, in particolare in un Paese con un trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale, allo scopo di sottrarsi al più gravoso regime nazionale.

Tuttavia il fenomeno in rassegna, per assumere una connotazione abusiva, deve avere come risultato l’ottenimento di un vantaggio fiscale che deve risultare, da un insieme di elementi oggettivi, lo scopo essenziale dell’operazione (cfr. ex multis, Corte di cassazione, Sezione 5° civile, con le sentenze n. 33234/2018 e 33235/2018, pubblicate in data 21.12.2018).

Per contrastare il fenomeno in rassegna, l’articolo 73, comma 3, Tuir illustra gli elementi di radicamento con il territorio dello Stato, alternativi tra di loro, che consentono di riqualificare la residenza fiscale in Italia di un soggetto non residente che formalmente ha stabilito all’estero la propria sede legale.

A livello domestico, le società, gli enti ed i trust sono considerati residenti in Italia quando, per la maggior parte del periodo d’imposta (183 giorni), hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato.

Di contro, in ambito internazionale, per dirimere casi di dual residence e, simmetricamente, evitare profili di doppia imposizione economica, l’articolo 4, paragrafo 3, del modello Ocse di Convenzione prevede che, nell’ipotesi in cui una società sia considerata residente in due diversi Stati, la residenza fiscale della persona giuridica sarà individuata sulla base di un accordo tra le autorità competenti (denominato mutual agreement), che dovrà tenere conto del luogo di direzione effettiva (place of effective management), del luogo di costituzione (the place where it is incorporated or otherwise constituted) e di ogni altro fattore rilevante (any other relevant factors).

Sempre la giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sentenza n. 14527/2019), ha stabilito che una holding di partecipazioni che non svolge una reale attività commerciale, disponendo di una struttura amministrativa modesta con limitati costi di gestione, che consegue in un altro Stato membro specifici benefici fiscali, non costituisce di per sé una costruzione di puro artificio, attribuendo preminente valore alla libertà di stabilimento prevista dal diritto comunitario.

Ulteriori importanti principi di diritto sono stati enunciati dalla suprema Corte di cassazione, con la recentissima ordinanza n. 6476/2021 del 09.03.2021, che si è nuovamente pronunciata su un caso di esterovestizione societaria fornendo, contestualmente, interessanti spunti interpretativi anche in tema di diritto comunitario e libertà di stabilimento.

Anzitutto, richiamando una serie di precedenti sentenze espresse in apicibus, gli Ermellini hanno sancito che al fine di stabilire se il reddito prodotto da una società possa essere sottoposto a tassazione in Italia, assume rilevanza decisiva il fatto che l’adozione delle decisioni riguardanti la direzione e la gestione dell’attività di impresa avvenga nel territorio italiano, nonostante la società abbia localizzato la propria residenza fiscale all’estero (Corte di cassazione, sentenza n. 16697 del 21.06.2019; Corte di cassazione, sentenza n. 33234 del 21.12.2018; Corte di cassazione, sentenza n. 2869 del 07.02.2013).

I Supremi Giudici hanno precisato che la nozione di “sede dell’amministrazione”, in quanto contrapposta alla “sede legale”, deve ritenersi coincidente con quella di “sede effettiva”, intesa come il luogo ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente e si convocano le assemblee e cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l’accentramento – nei rapporti interni e con i terzi – degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell’impulso dell’attività dell’ente.

Anche la giurisprudenza elaborata dalla Corte di giustizia UE (sentenza del 28.06.2007, Planzer Luxembourg Sàrl), ha evidenziato che la nozione di sede dell’attività economica “indica il luogo in cui vengono adottate le decisioni essenziali concernenti la direzione generale della società e in cui sono svolte le funzioni di amministrazione centrale di quest’ultimo (punto 60)”.

Inoltre l’esterovestizione, tesa ad accordare prevalenza al dato fattuale dello svolgimento dell’attività direttiva presso un territorio diverso da quello in cui ha sede legale la società, non contrasta con la libertà di stabilimento.

Avuto riguardo al diritto comunitario, i giudici unionali richiamano la sentenza della Corte di Giustizia 12 settembre 2006, C-196/04, Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas la quale, con riferimento al fenomeno della localizzazione all’estero della residenza fiscale di una società, ha stabilito che la circostanza che una società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per sé sola un abuso di tale libertà.

Tuttavia, una misura nazionale che restringa la libertà di stabilimento è ammessa se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate ad escludere la normativa dello Stato membro interessato.

Interessanti considerazioni circa la natura della “struttura di puro artificio”, seppure formulate in tema di beneficiario effettivo e Treaty Shopping, sono state formulate da parte della Corte di giustizia dell’Unione europea, nelle sentenze pubblicate in data 26.02.2019 riguardanti i “casi danesi” (cause riunite C-116/16 e C- 117/16 – riferite all’applicazione della direttiva comunitaria “madre-figlia”-  e cause riunite C-115/16, C-118/16, C-119/16, C-299/16 – riguardanti il trattamento fiscale della direttiva “interessi-canoni”).

Sullo specifico tema, i Giudici Unionali hanno espresso un orientamento spiccatamente “antielusivo” proprio nei confronti di quelle strutture societarie di “puro artificio” costituite, in assenza di valide ragioni economiche, al solo scopo di ottenere un indebito risparmio d’imposta.

A tal fine, la costruzione di puro artificio può essere individuata in un gruppo societario che non riflette una reale sostanza economica, ma risulta caratterizzato da una struttura puramente formale avente come obiettivo principale, ovvero uno degli obiettivi principali, il conseguimento di un indebito vantaggio fiscale in contrasto con normativa tributaria applicabile.