4 Marzo 2016

Distribuzione di utili occulti: vale il rapporto tra i soci

di Chiara RizzatoSandro Cerato - Direttore Scientifico del Centro Studi Tributari
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È quanto mai acclarato che ai soci di società di capitale a ristretta base sociale, soprattutto se si tratta addirittura di compagine familiare, possano essere imputati proporzionalmente maggiori ricavi o altri proventi constatati e accertati in capo alla società e da quest’ultima non dichiarati, in quanto si presuppone un’occulta distribuzione di utili extrabilancio. Ciò che si intende trattare in questa sede scaturisce dall’ordinanza n. 1932 del 2016 di recente emanazione, riguardante il principio secondo cui dalla ristrettezza della base sociale discende un elevato grado di compartecipazione dei soci alla gestione della società e di reciproco controllo tra gli stessi.

Innanzitutto si rende opportuno descrivere come opera la presunzione di distribuzione di utili extra-bilancio, ovverosia sotto forma di un’estensione alle società di capitali, a ristretta base sociale, del dettato normativo esistente per le società di persone, contemplato all’interno dell’articolo 5 comma 1 del TUIR: “i redditi  delle società semplici,  in nome collettivo e in  accomandita semplice  residenti nel  territorio dello Stato sono imputati a ciascun socio, indipendentemente   dalla  percezione,   proporzionalmente  alla  sua quota di partecipazione agli utili”. Come noto, il legislatore tributario concede la tassazione per trasparenza alle società di capitali a ristretta base sociale, specificatamente nell’articolo 116 del Tuir, denominato appunto “Opzione per la trasparenza fiscale delle società a ristretta base proprietaria”, del tutto esaustivo dal punto di vista letterale per quanto concerne la facoltà concessa e non l’obbligo di adottare tale regime.

Nonostante ciò gli Uffici, dopo aver rilevato un maggior reddito in capo alle società di capitali, le quali non hanno adottato il regime di cui all’articolo 116 del Tuir, possono dunque accertare anche i soci, i quali, secondo la presunzione esistente, avrebbero approfittato di tale reddito occultamente pervenuto.

La circolare n. 1/2008 della Guardia di Finanza, a supporto di ciò, nell’argomentazione trattata afferma che:

  • non si contravviene al divieto di presunzione di secondo grado, poiché il fatto non è costituito dalla sussistenza di maggiori redditi eventualmente accertati in via induttiva nei confronti della società, ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci, che in tal caso normalmente caratterizza la gestione sociale;
  • per le società di capitali a base familiare, si considera logica la presunzione semplice di erogazione ai soci di utili extrabilancio, in considerazione del “vincolo di complicità” che normalmente avvince i membri di una ristretta compagine sociale, specialmente se appartenenti ad una stessa famiglia;
  • l’accertamento di utili non contabilizzati nelle società di capitali a ristretta base azionaria comporta una presunzione di attribuzione pro quota ai soci degli utili stessi;
  • la prova contraria alla presunzione de quo consiste nella dimostrazione che i maggiori ricavi sono stati accantonati o reinvestiti.

 

Accertamento di un maggior reddito in una Società a ristretta base sociale e/o familiare

  • il fatto si configura nella stessa forma societaria ovverosia la ristretta base sociale
  • la presunzione si configura nell’attribuzione di utili pro quota ai soci

 

Punto fermo dal quale scaturisce la presunzione risulta essere pertanto la ristrettezza della base sociale, nonostante ciò nell’ordinanza sopra citata viene disconosciuta l’esistenza implicita di rapporti tra i soci con conseguente rigetto del ricorso proposto dall’Agenzia delle entrate e decisione favorevole per il contribuente. La pronuncia dispone infatti: “il principio secondo cui nelle società di capitali a ristretta base sociale, è legittima, ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi, la presunzione di distribuzione di eventuali utili extracontabili ai soci, spesso enunciato nell’ambito di controversie in cui i pochi soci sono tra loro legati da rapporti di parentela o coniugio, non presuppone necessariamente l’esistenza di siffatti rapporti. Il principio deriva infatti dalla regola di comune esperienza secondo cui dalla ristrettezza della base sociale discende un elevato grado di compartecipazione dei soci alla gestione della società e di reciproco controllo tra gli stessi. Ciò legittima, anche in assenza di rapporti di parentela tra i soci, la presunzione che gli stessi siano a conoscenza degli affari sociali, siano consapevoli dell’esistenza di utili extrabilancio e dunque se li distribuiscano in ragione delle rispettive quote di partecipazione al capitale”.

L’inesistenza di rapporti con un “vincolo di complicità”, locuzione utilizzata dalla Guardia di Finanza per avvalorare lo stretto legame esistente tra i soci nelle società in questione, può pertanto rappresentare un elemento decisivo per superare la presunzione di distribuzione di utili extrabilancio, in quanto attestante l’estraneità del socio alla gestione societaria.