28 Novembre 2014

Conferimento di azienda organizzata in impresa familiare – parte 2

di Giovanni Valcarenghi
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Proseguiamo l’analisi della tematica già delineata in un precedente intervento del 26 novembre, nel quale sono stati esaminati i motivi per i quali il conferimento in analisi non possa essere assimilato ad una trasformazione.

Degli aspetti fiscali relativi alle somme spettanti ai collaboratori si è occupata in modo massiccio la dottrina nel passato, specialmente in relazione alle conseguenze tributarie afferenti la tassazione della plusvalenza ritratta dalla cessione di azienda esercitata in forma di impresa familiare.

Al riguardo, si contrapponevano due tesi:

  • la prima, in forza della quale la plusvalenza da cessione doveva essere ripartita tra imprenditore individuale e collaboratori familiari;
  • la seconda che, invece, riteneva la plusvalenza di unica competenza dell’imprenditore titolare.

L’allora Ministero delle finanze, con nota 17/07/1997 n. 984, aveva dapprima affermato che la plusvalenza  andasse ripartita tra il titolare dell’impresa ed i collaboratori familiari; il tutto, sulla scorta della rilevanza della previsione dell’art. 230-bis Cod. Civ., in base alla quale il familiare partecipa anche agli incrementi dell’azienda, compreso l’avviamento, in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato.

Successivamente, compiendo un cambio di rotta ad opera della Circolare n. 320/E del 19/12/1997 (paragrafo 2.7), è stato diversamente concluso che la liquidazione dei diritti di credito, spettanti ai collaboratori familiari secondo le regole civilistiche, non determina conseguenze fiscali in ordine al valore delle partecipazioni.

Ma anche dopo tale affermazione, le due correnti dottrinali hanno continuato a sostenere le opposte tesi, valutando in modo difforme le ultime indicazioni di prassi richiamate. Tuttavia, appaiono maggiormente sensate le argomentazioni a supporto della seconda tesi, in forza della quale l’affermata estraneità dall’imponibile reddituale dell’erogazione ai collaboratori familiari rappresenterebbe “un implicito riconoscimento alla irrilevanza tributaria in capo ai collaboratori familiari medesimi, della plusvalenza conseguita al momento del realizzo”. Diversamente, ove si concludesse per la tassazione in capo ai collaboratori, l’affermazione contenuta nella Circolare n.320/E/1997 sarebbe priva di fondamento, in quanto “sarebbe del tutto evidente che un componente già sottoposto a tassazione nel momento del realizzo non potrebbe essere ulteriormente imponibile in fase di materiale erogazione della somma in denaro”.

L’Agenzia delle entrate ha manifestato il proprio parere definitivo rispondendo ad un interpello, con la Risoluzione n.176/E del 28/04/2008, affermando che la liquidazione al collaboratore del diritto di partecipazione all’ impresa familiare afferisce alla sfera personale del rapporto.

L’Agenzia, innanzitutto, ricostruisce la dimensione fiscale dell’impresa familiare, notando come il Tuir abbia sentito l’esigenza di regolare la fattispecie ponendo dei ben precisi limiti, per evitare operazioni elusive volte ad aggirare il principio della capacità contributiva attraverso abbattimenti di imponibili e riduzioni di aliquote che trasformino il fisiologico godimento di profitti da parte dei familiari in costi per l’impresa. Così, l’art. 5 del Tuir, nel prevedere che i redditi delle imprese familiari, di cui all’art. 230-bis Cod. Civ., siano imputati a ciascun familiare, che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili, fissa il limite massimo di tale imputazione al 49% dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore; inoltre elenca gli adempimenti che devono essere osservati, per poter usufruire di tale disciplina.

Il reddito dell’impresa è dichiarato nel suo ammontare complessivo dall’imprenditore, che è l’unico titolare, il quale può imputare parte del suo reddito ai familiari per un ammontare non superiore al 49%; tali quote, però, non rappresentano costi nella determinazione del reddito dell’impresa familiare, bensì una ripartizione dell’utile dell’impresa stessa. Ciò significa che nella contabilità dell’imprenditore non viene iscritto il “costo” del lavoro del collaboratore, ma lo stesso viene remunerato come quota di utile che diminuisce il reddito del titolare in dichiarazione dei redditi.

Il medesimo Tuir, inoltre, ha previsto all’art, 60 che “non sono ammesse deduzioni a titolo di compenso del lavoro prestato o dell’opera svolta dall’imprenditore, dal coniuge, dai figli, affidati o affiliati minori di età o permanentemente inabili al lavoro e dagli ascendenti nonché dai familiari partecipanti all’impresa familiare di cui al comma 4 dell’art. 5“.

Poiché la liquidazione del diritto di partecipazione all’impresa familiare non trova una disciplina specifica nel sistema del Tuir, ai fini della soluzione della questione occorre tener conto della peculiarità dell’istituto; partendo dalla tesi che l’impresa familiare ha natura individuale, la partecipazione del familiare all’impresa ha una rilevanza meramente interna nei rapporti tra l’imprenditore ed i suoi familiari in quanto il fondamento di tale istituto va ravvisato nella solidarietà che deve risiedere nei rapporti familiari e nell’esigenza di tutela e valorizzazione del lavoro prestato dai componenti della famiglia che hanno dato il loro contributo all’impresa, così come stabilito dall’art. 230-bis Cod. Civ.. Per effetto di tale disposizione l’imprenditore deve devolvere parte del suo reddito ai componenti della famiglia che collaborano nell’impresa e deve liquidare al familiare il diritto di partecipazione nell’ipotesi in cui cessi di lavorare nell’impresa.

Nell’impresa familiare i diritti dei collaboratori non toccano la titolarità dell’azienda e rilevano solo sul piano obbligatorio, senza comportare alcuna modifica nella struttura dell’impresa facente capo al titolare della stessa, che solo ha la qualifica di imprenditore ed al quale spettano i poteri di gestione e di organizzazione del lavoro implicanti la subordinazione dei familiari che lo coadiuvano (Cassazione civile, sez. Lavoro, 25 luglio 1992, n. 8959 – e 6 marzo 1999, n. 1917).

Secondo una interpretazione logico sistematica, quindi, le somme corrisposte dall’imprenditore non sono collegabili all’esercizio della sua attività, in quanto dirette a soddisfare esigenze estranee alle finalità e alla logica d’impresa.

In tale contesto, la liquidazione al coniuge del diritto di partecipazione all’impresa familiare afferisce alla sfera personale dei soggetti del rapporto in questione e, pertanto, non è riconducibile a nessuna delle categorie reddituali previste dal Tuir.

Ne deriva che:

  • l’importo attribuito non va pertanto assoggettato ad IRPEF in capo al soggetto percipiente;
  • la somma in questione non rileva come componente negativo e non è deducibile dal reddito d’impresa, non ricorrendo il requisito dell’inerenza previsto dall’art. 109, comma 5, del Tuir, che si configura per le spese riferite ad attività da cui derivano proventi che concorrono a formare il reddito.

Per quanto attiene ai riflessi di natura contabile, si rinvia ad un prossimo intervento sul tema.