8 Luglio 2014

Cessione d’azienda e divieto di concorrenza

di Sandro Cerato - Direttore Scientifico del Centro Studi Tributari
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Quando si realizza una cessione d’azienda o di un ramo aziendale, una delle problematiche di maggior rilievo è la tutela del cessionario di fronte al rischio che il cedente svii la clientela o svolga un’attività comunque in concorrenza, depauperando di fatto il valore del complesso aziendale oggetto di trasferimento.

Nell’ambito delle disposizioni del Codice Civile che regolano la cessione d’azienda, la norma che disciplina il divieto di concorrenza è l’art. 2557.

Il comma 1 della disposizione prevede un importante principio a tutela dell’acquirente dell’azienda, consistente nel divieto per il cedente di iniziare una nuova attività d’impresa che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta. La durata di tale divieto non può comunque eccedere la durata di cinque anni dal trasferimento.

La ratio del divieto è naturalmente quella di tutelare l’acquirente, il quale solitamente corrisponde una somma a titolo di avviamento, consistente nella speranza di ottenere in futuro redditi simili a quelli del precedente titolare, e che potrebbe essere gravemente danneggiato da un’attività concorrenziale del cedente. Infatti, quest’ultimo, in assenza del precetto in commento, potrebbe successivamente alla cessione dell’azienda intraprendere un’attività identica, o simile, che sia in grado agevolmente di “sviare” la clientela dell’azienda ceduta.

Tuttavia, è particolarmente importante delimitare la portata applicativa di tale disposizione, in quanto viene espressamente detto che la nuova attività iniziata dal cedente deve essere “idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta”. Si deve trattare di fattispecie nelle quali, ad esempio, gli articoli o i beni trattati sono i medesimi di quelli dell’azienda oggetto di trasferimento, ma certamente non può applicarsi tale divieto qualora, pur in presenza di un’identità merceologica, la nuova attività del cedente sia ubicata in luoghi lontani e tali da non incidere sul medesimo bacino d’utenza, ovvero ancora abbia come oggetto l’esercizio di un’attività diversa e del tutto svincolata da quella ceduta.

Altro aspetto di rilievo attiene alla necessità che il divieto di concorrenza riguardi l’apertura di una “nuova impresa, con la conseguenza che se il cedente già esercitava attraverso due aziende la medesima attività, egli la può liberamente continuare con l’azienda rimastagli, fermo restando il divieto di utilizzo di tale impresa per sottrarre clientela all’acquirente dell’azienda.

E’ opportuno evidenziare che la violazione del divieto in questione si concretizza anche nell’ipotesi di esercizio “indiretto” dell’impresa, che può realizzarsi quando ci si avvale di un prestanome ovvero si è amministratori di società o procuratori. In tali casi, infatti, si possono sfruttare alcune informazioni derivanti dalla conoscenza della clientela e del mercato che possono danneggiare l’acquirente dell’azienda.

In merito alla possibilità di ampliare l’ambito applicativo del divieto di concorrenza, l’art. 2557, co. 2, consente alle parti di procedere in tal senso, purché non si impedisca al cedente di esercitare ogni attività d’impresa, e fermo restando il limite temporale del quinquennio dalla data del trasferimento.

Normalmente nella prassi, l’ampliamento del divieto di concorrenza è recepito con la previsione di clausole che prescindono dall’idoneità dell’attività a sviare la clientela dell’azienda ceduta, oppure si prevede l’estensione anche per eventuali attività già esercitate in precedenza dal cedente. Unico limite, come detto, è che non si impedisca all’alienante qualsiasi attività professionale, intendendosi per tale l’esercizio d’impresa, non essendo sufficiente che al cedente resti esclusivamente la possibilità di esercitare una delle professioni liberali.

Infine, per ciò che riguarda la forma che deve assumere il divieto di concorrenza, è da evidenziare che nulla dice al riguardo l’art. 2557: si ritiene però applicabile l’art. 2596 del Codice Civile che, come norma generale sui limiti contrattuali alla concorrenza, richiede la forma scritta ad probationem.