2 Luglio 2020

Cessione/aggregazione dello studio professionale: rateizzazione dei corrispettivi e IVA

di Goffredo Giordano di MpO Partners
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Abbiamo già avuto modo di evidenziare, in precedenti contributi pubblicati su Euroconference News (si veda ad esempio “La continuità come fattore di successo nelle operazioni M&A di studi professionali” del 30/4 e “I professionisti devono acquisire la cultura dell’aggregazione” del 27/6), come l’aumento della concorrenza tra i professionisti e della domanda specialistica da parte della clientela, nonché l’ingresso della digitalizzazione negli studi professionali abbiano messo in crisi la storica propensione del professionista ad esercitare individualmente la sua attività.

Tutto ciò ha determinato una spinta per gli studi professionali ad organizzarsi secondo modelli più complessi, in grado di far fronte all’evoluzione del mercato e di lavorare secondo criteri aziendali di autonomia organizzativa e massima redditività.

Già nel nostro contributo del 16/1 u.s. si è evidenziato che, anche nell’ottica della programmazione del passaggio generazionale, il processo di aggregazione fra studi professionali costituisce insieme la condizione necessaria e la conseguenza diretta dell’operazione di cessione/acquisizione di uno studio professionale

Ma quali sono le problematiche di natura fiscale che occorre affrontare con riferimento ad un’operazione che abbia ad oggetto uno studio individuale?

Ai fini delle imposte dirette l’articolo 54, comma 1-quater del Tuir prevede espressamente che “Concorrono a formare il reddito i corrispettivi percepiti a seguito di cessione della clientela o di elementi immateriali comunque riferibili all’attività artistica o professionale”. Ribadendo, quindi, anche il principio “di cassa”. Pertanto, i corrispettivi percepiti a seguito del trasferimento a titolo oneroso dello studio professionale generano interamente reddito professionale da assoggettare a tassazione ordinaria (proprio ai sensi dell’articolo 54 del Tuir) con l’opportunità (assai rara nella prassi e prevista dall’articolo 17 del Tuir) di avvalersi del regime della tassazione separata qualora l’incasso avvenga in unica soluzione (o in più rate ma nello stesso periodo di imposta).

Nella quasi totalità di queste tipologie di operazioni, però, il contratto prevede l’incasso rateale di una parte del corrispettivo in un arco temporale di medio/breve periodo (normalmente compreso tra i 3 ed i 5 anni). Pertanto, in ottemperanza al principio di cassa contenuto nell’articolo 54 del Tuir, il professionista cedente, al momento dell’incasso di ciascuna rata, deve emettere regolare parcella assoggettandola ad IVA, Cassa di Previdenza (se prevista) e ritenuta d’acconto. Ne consegue che il lavoratore autonomo il quale, a seguito della cessione della propria attività professionale intende cessare l’attività, deve conservare la partita IVA fino all’incasso dell’ultima rata.

Ma cosa succede in caso di decesso del professionista cedente?

Su tale argomento è intervenuta l’Amministrazione Finanziaria con la risoluzione n. 34/E dell’11 marzo 2019. Il quesito sottoposta all’Agenzia delle Entrate si riferisce ad un professionista defunto il quale, negli anni precedenti il decesso, aveva emesso fatture nei confronti della Pubblica Amministrazione con IVA ad esigibilità differita ai sensi dell’articolo 6 del D.P.R. 633/72.

Tali fatture presentavano le seguenti caratteristiche:

  1. non erano ancora state riscosse alla data del decesso;
  2. avevano una previsione di incasso che andava oltre i sei mesi previsti dall’articolo 35-bis del D.P.R. 633/72 per chiudere, da parte degli eredi, la partita IVA del “de cuius”.

Inoltre, il professionista aveva effettuato e concluso prestazioni professionali non ancora fatturate alla data del decesso. L’istante si poneva il problema di come versare l’imposta non ancora incassata, nell’eventualità che si debba comunque procedere, entro sei mesi dalla morte, a chiudere la partita IVA, nonché se considerare le prestazioni non ancora fatturate comunque concluse e, quindi, rilevanti ai fini IVA.

l’Agenzia delle Entrate ha ribadito il suo già consolidato orientamento secondo cui “In linea generale, la cessazione dell’attività professionale, con conseguente estinzione della partita IVA, non può prescindere dalla conclusione di tutti gli adempimenti conseguenti alle operazioni attive e passive effettuate. Pertanto, il professionista che non svolge più l’attività professionale non può estinguere la partita IVA in presenza di corrispettivi per prestazioni rese in tale ambito ancora da fatturare nei confronti dei propri clienti.” L’Amministrazione Finanziaria, argomentando la risposta, ha, inoltre, richiamato la risoluzione n. 232/E/2009, con la quale è stato ulteriormente specificato che “La cessazione dell’attività per il professionista non coincide … con il momento in cui egli si astiene dal porre in essere le prestazioni professionali, bensì con quello, successivo, in cui chiude i rapporti professionali, fatturando tutte le prestazioni svolte e dismettendo i beni strumentali. Fino al momento in cui il professionista, che non intenda anticipare la fatturazione rispetto al momento di incasso del corrispettivo, non realizza la riscossione dei crediti, la cui esazione sia ritenuta ragionevolmente possibile (perché, ad esempio, non è decorso il termine di prescrizione di cui all’art. 2956, comma 1, n. 2 del codice civile) l’attività professionale non può ritenersi cessata”.

Inoltre, a supporto della decisione l’Amministrazione Finanziaria richiama il contenuto della sentenza della Corte di Cassazione n. 8059 del 2016 il quale prevede che “il compenso di prestazione professionale è imponibile ai fini IVA, anche se percepito successivamente alla cessazione dell’attività, nel cui ambito la prestazione è stata effettuata, ed alla relativa formalizzazione”; e questo perché “[…] il fatto generatore del tributo IVA e, dunque, l’insorgenza della correlativa imponibilità vanno identificati […] con la materiale esecuzione della prestazione, giacché, in doverosa aderenza alla disciplina Europea, la previsione di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 3, va intesa nel senso che, con il conseguimento del compenso, coincide, non l’evento generatore del tributo, bensì, per esigenze di semplificazione funzionali alla riscossione, solo la sua condizione di esigibilità ed estremo limite temporale per l’adempimento dell’obbligo di fatturazione.”. Quindi, per la Suprema Corte per il professionista che intende cessare la propria attività “[…] non emergono … ragioni logico-giuridiche ostative all’applicazione della soluzione indicata relativamente ai corrispettivi di prestazioni eseguite, nell’esercizio dell’attività economica di soggetto deceduto o di società estinta, incassati dagli eredi o dai soci”.

Conseguentemente, in presenza di fatture da incassare o prestazioni da fatturare, gli eredi non possono chiudere la partita IVA del professionista defunto sino a quando non viene incassata l’ultima parcella e devono adempiere a tutti gli obblighi Iva (registrazione, liquidazione, dichiarazione, etc). Pertanto, In virtù di quanto sopra indicato, in caso di decesso del professionista cedente si verificano le condizioni per derogare a quanto stabilito dall’articolo 35-bis del D.P.R. 633/1972 (dichiarazione di cessazione dell’attività e la chiusura della partita IVA del contribuente deceduto da parte degli eredi entro sei mesi dalla data della sua morte) gli eredi devono mantenere “accesa” la partita IVA fino all’incasso di tutta la residua parte rateizzata.

Resta salva, per gli eredi, la possibilità di anticipare la fatturazione delle prestazioni rese dal de cuius, liquidare la relativa imposta per poi procedere con la chiusura della partita IVA.