26 Ottobre 2018

Il certificato fiscale non costituisce prova legale

di Marco Bargagli
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Come noto, le convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sui redditi contengono una specifica clausola antiabuso conosciuta come “beneficiario effettivo” (in ambito internazionale nota come “beneficial owner”), adottata dalla comunità internazionale per contrastare manovre di pianificazione fiscale internazionale finalizzate unicamente ad ottenere un indebito risparmio fiscale usufruendo, simmetricamente, di un regime convenzionale non spettante.

La fattispecie elusiva in rassegna generalmente prevede l’interposizione di mere conduit company, utilizzate per veicolare i flussi di reddito dal Paese della fonte (es. l’Italia) verso il beneficiario effettivo, attraverso un canale che consenta lo sfruttamento delle migliori condizioni impositive.

Sullo specifico tema, attualmente, il modello Ocse di Convenzione e relativo Commentario prevedono che si possa considerare beneficiario effettivo dei flussi reddituali il percettore dei redditi, qualora lo stesso goda del semplice diritto di utilizzo dei flussi reddituali (right to use and enjoy the interest) e non sia, conseguentemente, obbligato a retrocedere gli stessi ad altro soggetto, sulla base di obbligazioni contrattuali o legali, desumibili anche in via di fatto (unconstrained by a contractual or legal obligation to pass on the payment received to another person).

In merito, un primo filone giurisprudenziale aveva consolidato l’opinione che, per attestare la qualifica di beneficiario effettivo necessaria per ottenere l’esenzione da ritenuta sui flussi reddituali, sarebbe stato sufficiente esibire la certificazione di residenza nello Stato comunitario, sulla base della valenza probatoria del certificato fiscale.

Infatti, eventuali oneri aggiuntivi richiesti dall’Amministrazione finanziaria italiana non potevano essere considerati obbligatori, compresa la prova sulla data certa della documentazione.

In netta controtendenza appare l’orientamento espresso dalla CTR Milano, sezione VIII, con la sentenza n. 2707 del 13.06.2018, che si è recentemente pronunciata accogliendo la tesi proposta da parte dell’Agenzia delle entrate, che aveva proposto il recupero a tassazione di ritenute alla fonte non operate, in violazione dell’articolo 26-quater D.P.R. 600/1973, non attribuendo quindi “valore legale” alla certificazione rilasciata dalle autorità fiscali estere.

Nel corso dell’iter processuale, il giudice tributario ha infatti sancito il ruolo “meramente passante” di una società giudicata come conduit company interposta nelle transazioni reddituali.

La controversia era scaturita a seguito di un finanziamento concesso da parte di una società lussemburghese ad altre società italiane del Gruppo senza applicare, al momento del pagamento degli interessi passivi, la prescritta ritenuta fiscale.

Tuttavia l’Amministrazione finanziaria, sulla base di approfonditi accertamenti, aveva negato i benefici previsti dalla direttiva comunitaria “interessi-canoni”, non ritenendo sufficiente la mera esibizione del certificato fiscale del soggetto estero.

Nello specifico, nel corso della verifica fiscale era stato accertato:

  • l’assenza di responsabilità della società lussemburghese nelle operazioni di finanziamento operate nei confronti delle altre società (la società estera aveva semplicemente incassato quanto gli era stato volontariamente versato e, successivamente, aveva girato le somme incassate ad altri soggetti, realizzando così un’attività di mera intermediazione);
  • che l’attività della società lussemburghese era quella di veicolare e canalizzare i finanziamenti (c.d. “channelling funds”) senza assumere, come detto, alcuna responsabilità ma ponendo in essere una “mera attività di organizzazione” priva di spessore economico operando, di fatto, come un veicolo per realizzare “abusivamente un beneficio fiscale”;
  • che la società non aveva svolto alcuna attività di ricerca di mercato per ottenere i finanziamenti;
  • che il certificato rilasciato dalle autorità fiscali estere, attestante che la società lussemburghese era asseritamente la beneficiaria effettiva degli interessi, costituiva una “prova importante”, ma non una “prova legale”, dovendosi accertare lo status di beneficiario effettivo sulla base delle regole che si sono formate in sede europea.

In definitiva, la società lussemburghese non è stata giudicata il beneficiario effettivo delle somme erogate dai soggetti italiani (i.e. interessi passivi), non svolgendo una reale attività economica, risultando meramente interposta quale “struttura passante”, avendo “retrocesso” le somme ricevute ad altri soggetti economici (individuati come i titolari effettivi dei flussi reddituali).

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