21 Aprile 2016

Ancora acceso il dibattito sul transfer pricing

di Massimiliano Tasini
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Il 4 giugno 2014 la Corte di Cassazione, con la sentenza 12502, ha avuto modo di affermare che il principio del valore normale ha una portata generale ed è dunque applicabile anche al transfer pricing domestico, ossia alle transazioni avvenute fra società appartenenti allo stesso gruppo e tutte aventi sede in Italia.

La disciplina sul transfer pricing, dice la Corte, ha portata antielusiva, e costituisce generale esplicazione del divieto di abuso del diritto.

La tesi è ripresa nella successiva sentenza della Cassazione del 22 giugno 2015 n. 12844, che rimarca che questa pratica realizza abuso in quanto comporta l’uso improprio di strumenti giuridici idonei ad ottenere agevolazioni o risparmi di imposta in difetto di ragioni diverse dalla mera aspettativa di quei benefici.

Naturalmente, aggiungiamo, potrebbe essere che quei prezzi siano stati praticati non tanto, o comunque non solo, per motivi fiscali, bensì, solo per fare un esempio, per aprire un nuovo mercato in una zona del paese promettente, che però potrebbe avere la “sfortuna” di godere di alcune agevolazioni fiscali. Ma questo lo diciamo solo per inciso.

Questa strada è parsa davvero difficilmente sostenibile sul piano normativo: non si capiva infatti per quale motivo a fronte di una disciplina positiva che riservava l’applicazione del transfer pricing alle operazioni internazionali, si fosse pervenuti ad estenderla ad ogni tipo di imprese. È stato necessario un intervento legislativo, che è arrivato con l’articolo 5 del D.Lgs. 147/2015, per “interpretare” la disciplina positiva e dirimere la questione.

Fuori un problema, sotto un altro.

Come si diceva sopra, la tesi tradizionale porta a configurare il transfer pricing nel novero delle operazioni elusive; da tale premessa, la Cassazione nella sentenza 24 luglio 2015 n. 15642 – ma anche in molte altre datate pronunce – ha ritenuto che sull’Amministrazione finanziaria gravasse l’onere di provare i presupposti dell’elusione fiscale, tra i quali la superiorità della fiscalità in Italia all’epoca dell’operazione rispetto a quella in vigore nel territorio dello Stato dell’impresa non residente.

Senonché, meno di due mesi dopo questa tesi è stata smentita dalla Cassazione con la sentenza 18 settembre 2015 n. 18392. Diciamo subito che questa pronuncia non parrebbe risentire della novella del D.Lgs. 128/2015. Ivi si afferma che il transfer pricing non integra una disciplina antielusiva in senso proprio, di talché la prova sull’Amministrazione finanziaria non riguarda la maggiore fiscalità nazionale o il concreto vantaggio fiscale conseguito dal contribuente, ma solo l’esistenza di transazioni tra imprese collegate ad un prezzo apparentemente inferiore al valore normale.

Si tratta di una questione di estrema delicatezza. Difficile dire se la soluzione debba venire dal legislatore o dalle Sezioni Unite, è però necessario risolvere la questione. E in fretta.