27 Marzo 2014

Accertamenti immobiliari: valori OMI non applicabili all’immobile in costruzione

di Massimo Conigliaro
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I valori OMI costituiscono, di per sé, un dato di mero riferimento per gli accertamenti immobiliari e diventano inapplicabili qualora al momento della vendita il bene sia ancora in fase di arretrata realizzazione. E’ il principio stabilito dalla Commissione Tributaria Regionale di Genova, Sezione III, con la sentenza n. 87 del 10 dicembre 2013.

Nel caso trattato dai giudici liguri, l’Agenzia delle Entrate contestava il maggior valore di alcune vendite di appartamenti ad una società immobiliare ed ai soci della stessa, deducendo che vi fosse un sovrapprezzo e che le somme relative fossero state incassate da questi ultimi, trattandosi di società a ristretta base familiare (formata da due coniugi). L’amministrazione finanziaria assumeva altresì che vi fosse un rilevante scostamento fra il prezzo dichiarato in atto e il valore degli immobili determinato in base ai valori dell’osservatorio del mercato immobiliare. Accertava conseguentemente un maggior reddito anche nei confronti dei soci ai fini IRPEF per l’anno d’imposta 2006, esercizio nel quale erano stati stipulati i rogiti notarili.

Proponevano ricorso in commissione tributaria provinciale sia la società che i soci, sostenendo che il valore indicato in atto fosse quello effettivo, perché gli immobili erano ancora in gran parte da ristrutturare e quindi non potevano essere considerati al valore normale di mercato secondo i coefficienti OMI. Affermavano altresì di aver dato prova piena di tale fatto con una perizia giurata di stima e con il certificato di agibilità rilasciato dal Comune solamente nel 2012, circostanza che confermava che l’immobile fosse ancora in costruzione al momento della vendita. Eccepivano infine la non rettificabilità del valore degli immobili perché assoggettati ad imposta di registro sull’atto di compravendita, imposta non contestata dall’ufficio impositore e divenuta fiscalmente definitiva.

La Commissione Tributaria Provinciale di Genova respingeva però il ricorso dei contribuenti, considerando “validi e congrui” i valori OMI presi dall’Ufficio a base della valutazione degli immobili.

In secondo grado è stata invece accolta la tesi difensiva della parte contribuente atteso che il compendio immobiliare oggetto di compravendita era ancora in fase arretrata di ristrutturazione ed i lavori sono stati completati nei successivi cinque anni. A fronte di ciò, non potevano essere applicati dall’Ufficio, i parametri di valore presi dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare che considera il valore degli immobili finiti e agibili.

La CTR osserva altresì che l’Ufficio non aveva opposto argomento alcuno a quanto riportato nella perizia giurata; inoltre il valore dichiarato in atto era stato ritenuto congruo ai fini dell’imposta di registro, confermando ciò la illegittimità del maggior valore accertato dall’Agenzia delle Entrate.

In tali casi anche la pretesa riferita ai maggiori redditi di partecipazione dei soci risulta priva di fondamento, non avendo assolto l’ente impositore ad un doppio onere probatorio: il primo riferito al maggior corrispettivo incassato dalla società ed il secondo inerente la traccia del flusso di denaro che si assumeva incassato in nero dai soci.

Sul punto è utile ricordare che la Corte di Cassazione (sentenza n. 14046 del 17.6.2009) ha affermato che l’attribuzione al socio del maggior reddito accertato non può discendere da affermazioni apodittiche quali la “logica”, il “buon senso” e “l’id quod plerumque accidit” che costituiscono solo una motivazione apparente. Occorre, invece, che l’Ufficio indichi esplicitamente gli elementi concreti sulla cui base è stato fondato l’accertamento affinché vi siano indizi, gravi, precisi e concordanti per poter elevare la presunzione semplice al rango di prova. In altre parole è necessario che l’Ufficio dimostri che le somme presuntivamente sottratte a imposizione da parte della società siano poi confluite ai soci. Tale conclusione non è, infatti, automatica ben potendo le somme medesime, qualora realmente esistenti, essere state reinvestite nella società. Inoltre, non è detto che le somme, laddove veramente confluite ai soci, siano state incassate dagli stessi in proporzione alla loro partecipazione agli utili: non tutti i soci, o alcuno di essi, hanno potere di gestire e, dunque, non è ragionevole pensare che tutti abbiano ottenuto le somme medesime. In pratica, la presunzione di distribuzione di utili ai soci, se la società ha realmente evaso, costituisce una presunzione semplice, non idonea a motivare un accertamento dell’Ufficio, il quale deve fornire la prova che le somme sono effettivamente confluite ai soci. Altrimenti il principio diventa “troppo generico e scarsamente garantista per poter essere esteso a qualunque caso, in quanto ogni realtà può avere una specificità tale da rendere applicabile o meno la presunzione legale di distribuzione di utili occulti ai soci” (CTR Puglia n. 116/01/06).