17 Febbraio 2017

Verifiche fiscali: alcuni punti fermi

di Massimiliano TasiniPatrizia Pellegrini
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La sentenza 2055, depositata lo scorso 27 gennaio 2017 dalla Quinta Sezione Tributaria della Suprema Corte, costituisce un ottimo punto di riferimento per fotografare alcuni orientamenti via via consolidatisi e che possono dirsi oramai punti fermi.

Un focus sugli stessi appare sicuramente opportuno, anche per non lanciare false speranze ai clienti a fronte di potenziali vizi degli atti impositivi.

Già il caso è di per sè interessante: la Guardia di Finanza, nel corso di una verifica a carattere generale effettuata presso una società di capitali, redigeva processo verbale di constatazione per violazioni in materia di imposta di bollo, rilevando che la società, nell’anno 2003, aveva negoziato e contabilizzato assegni bancari irregolarmente emessi da vari soggetti, in quanto privi del luogo e/o della data di emissione ovvero postdatati.

Il Giudice di Appello, in riforma della sentenza di primo grado, aveva accolto il gravame frapposto dall’Ufficio, stante la conformità agli originali delle copie degli assegni acquisiti in sede di verifica fiscale, tesi poi confermata dalla Suprema Corte, la quale ha rimarcato l’impossibilità di sindacare la valutazione sul punto operata dal Giudice di merito, che nel caso di specie aveva giustificato tale affermazione rilevando che gli assegni erano stati fotocopiati dagli stessi dipendenti della società.

Sono tre le questioni affrontate dalla Corte specificatamente in materia di verifiche fiscali; e, tutte e tre risolte a sfavore del contribuente.

La prima attiene alla ritenuta violazione dell’articolo 7, primo comma, della Legge 212/2000, avendo l’Ufficio omesso l’allegazione del PVC all’atto impositivo. La tesi è però manifestazione infondata, considerato che, in tema di motivazione per relationem degli atti di imposizione tributaria, l’articolo 7 primo comma citato, nel prevedere che debba essere allegato all’atto dell’Amministrazione finanziaria ogni documento richiamato nella motivazione di esso, non trova applicazione per gli atti di cui il contribuente abbia già avuto integrale e legale conoscenza per effetto di precedente comunicazione (cfr. Cass. 14 gennaio 2015, sent. 407).

La seconda attiene alla legittimità dell’atto impositivo che si sia limitato a recepire le risultanze delle indagini della Guardia di Finanza. Anche tali tesi è però destituita di fondamento, in quanto la motivazione dell’atto impositivo, con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza nell’esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima, neppure per asserita mancanza di autonoma valutazione da parte dell’ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l’ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare un’economia di scrittura che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti alla parte contribuente, non arreca alcun pregiudizio al coretto svolgimento del contraddittorio (Cfr. Cass. 16 maggio 2014, sent. 10767).

La terza ed ultima doglianza attiene la durata della verifica fiscale, che a detta del contribuente avrebbe superato i trenta giorni fissati dalla legge. Sul punto la Corte è parimenti lapidaria, rilevando come l’eventuale supero di tale termine non comporti la nullità dell’accertamento, nè l’inutilizzabilità dei dati acquisiti, trattandosi di effetti non previsti nell’ordinamento. Sul punto la Corte richiama la Cass. 15 aprile 2015 n. 75481, secondo cui, il protrarsi della presenza dei verificatori nella sede del contribuente oltre i termini previsti dall’articolo 12, comma 5, della Legge 212/2000, non preclude, in assenza di una specifica norma sanzionatoria, l’utilizzo degli elementi acquisiti oltre la scadenza dei predetti termini, e per l’effetto non determina l’invalidità del conseguente avviso di accertamento.

La conclusione tratta dalla Suprema Corte su quest’ultimo punto suscita perplessità, non tanto per il principio affermato, quanto per la motivazione dedotta; ed invero, costituisce principio oramai consolidato in seno alla stessa Corte che la invalidità di un atto impositivo non dipende dal fatto che il legislatore abbia, o meno, contemplato la sanzione della nullità, mancando in materia tributaria una codificazione delle ipotesi di nullità (talora prevista dall’ordinamento). A sommesso avviso di chi scrive, fu molto più persuasiva l’affermazione, pure resa dalla Corte, secondo cui il disagio del contribuente a fronte di una ingiustificata permanenza dei militari non giustifica comunque l’applicazione di una sanzione così grave quale appunto la nullità.

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