4 Luglio 2014

Vecchie sentenze che non muoiono mai

di Massimiliano Tasini
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Una oramai datata sentenza – Cass. civ. Sez. V, 30-01-2007, n. 1905 – relativa all’obbligo di motivazione degli atti impositivi è stata recentemente rispolverata dalla stessa Corte con significative aggiunte che riprendono un percorso fortemente garantista.

Iniziando dalla sentenza del 2007, la Corte rimarca che la motivazione dell’avviso di accertamento costituisce strumento essenziale di garanzia del contribuente, soggetto inciso nella propria sfera giuridica dall’Amministrazione finanziaria nell’esercizio del suo potere di imposizione fiscale. Essa assolve l’essenziale funzione di garantire la conoscenza e l’informazione del contribuente, nel quadro dei principi generali di collaborazione, trasparenza e buona fede che devono improntare, in quanto espressivi di civiltà giuridica, i rapporti tra fisco e contribuente.

Ne deriva, osserva la Corte, che “… nell’avviso di accertamento, al fine di realizzare in pieno la anzidetta sua finalità informativa, devono confluire tutte le conoscenze dell’Ufficio e deve essere esternato con chiarezza, sia pur sinteticamente, l’iter logico-giuridico seguito per giungere alla conclusione prospettata, fermo restando che tale contenuto della motivazione si atteggia, in concreto, diversamente in relazione alle singole norme applicabili nel caso specifico”.

Di tali affermazioni interessa in modo particolare la prima, relativa alla necessità che l’Ufficio espliciti tutte, e non solo alcune, delle conoscenze di cui dispone. Farne confluire alcune e non altre di certo non sarebbe aderente all’obbligo, che incombe sull’Amministrazione Finanziaria, di assicurare un comportamento trasparente ed imparziale: per usare le parole del Prof. De Mita, l’Amministrazione non tassa a suo piacimento, ma tassa – e deve tassare – laddove ne sussistano effettivamente i presupposti. Dunque, con la motivazione l’Ufficio illustra la scansione di quei presupposti, nonché le regole di carattere procedimentale che legittimano la stessa ad adottare un metodo di accertamento piuttosto che un altro.

Proseguendo, l’obbligo di indicare nell’avviso di accertamento i “presupposti di fatto e le ragioni giuridiche” che lo hanno determinato, persegue “… la finalità di porre il contribuente in condizione di avere adeguata informazione delle circostanze di fatto e del titolo giuridico della pretesa impositiva, così da consentirgli di valutarne la fondatezza e quindi l’opportunità di esperire l’azione giudiziale e, in caso positivo, di contestare efficacemente l’an ed il quantum debeatur (cit. Cass. nn. 7991 del 1996, 15234 del 2001, 3861 e 12394 del 2002, 15842 del 2006); e tali elementi conoscitivi … devono essere forniti all’interessato non solo tempestivamente (inserendoli cioè ab origine nel provvedimento impositivo), ma anche con quel grado di determinatezza ed intelligibilità che permetta al medesimo un esercizio non difficoltoso del diritto di difesa (Cass. n. 15842 del 2006)…”.

Di certo non una formalità.

Secondo la Corte (sentenze nn. 3162 del 1976, 10969 del 1996, 17762 del 2002, 7313 del 2005), la valutazione in ordine alla validità e congruità della motivazione dell’avviso di accertamento è compito demandato al giudice di merito e non è consentito al contribuente sollecitare dinanzi alla stessa Corte una revisione critica del relativo giudizio, salvo che non vengano evidenziati nel ricorso specifici errori di diritto o vizi di motivazione nel rispetto dell’art. 360 Cpc.

E veniamo alla recente sentenza Cass. civ. Sez. V, 07-05-2014, n. 9810.

Intanto, essa ritorna sulla funzione della motivazione, giudicata strumento essenziale di garanzia del contribuente, soggetto inciso nella propria sfera giuridica dall’Amministrazione finanziaria nell’esercizio del suo potere di imposizione fiscale, e si inserisce nell’ambito di quei presidi di legalità che, anche in forza delle norme dello Statuto dei diritti del contribuente, assolvono l’essenziale funzione di garantire la conoscenza e l’informazione dello stesso contribuente in ordine ai fatti posti a fondamento della pretesa fiscale e ai presupposti giuridici della stessa, nel quadro dei principi generali di collaborazione, trasparenza e buona fede che devono improntare, in quanto espressivi di civiltà giuridica, i rapporti tra esso e l’Amministrazione.

La motivazione ha la funzione di delimitare l’ambito delle contestazioni proponibili dall’Ufficio nel successivo giudizio di merito, e di mettere il contribuente in grado di conoscere l’an e il quantum della pretesa tributaria al fine di approntare una idonea difesa.

Il meccanismo “gira” solo se nell’avviso di accertamento confluiscono tutte le conoscenze dell’ufficio tributario ed è esternato con chiarezza, sia pur sinteticamente, l’iter logico-giuridico seguito per giungere alla conclusione prospettata.

Pensiamo ad esempio a cosa succederebbe se l’Amministrazione, nell’ambito del controllo della correttezza dei prezzi di vendita di immobili indicati nelle fatture emesse, inviasse questionari agli acquirenti, ma desse poi atto dell’esistenza delle sole imposte favorevoli al fisco.

Le ragioni poste a base dell’atto impositivo segnano i confini del processo tributario, che è comunque un giudizio d’impugnazione dell’atto, sì che l’ufficio finanziario non può porre a base della propria pretesa ragioni diverse e/o modificare, nel corso del giudizio, quelle emergenti dalla motivazione.

In questo ambito e con questi limiti, aggiunge la sentenza, il giudice del merito ha il potere di qualificare autonomamente la fattispecie posta a fondamento della pretesa fiscale e di esercitare d’ufficio alcuni poteri cognitori sempre che non ne resti alterata la sostanza dell’accertamento in ordine agli elementi da cui esso risulti esser stato informato.