17 Febbraio 2016

Valutazioni scivolose

di Massimiliano Tasini
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Credo di interpretare correttamente il pensiero di tanti, studiosi ed applicatori del diritto, se affermo che all’indomani della sentenza Cass. Sez. V 16 giugno 2015 n. 33774 ci siamo sentiti tutti più “rilassati” nel lavorare sui bilanci di esercizio.

La frase “coccolosa” è quella in cui la Corte afferma che “il dato testuale e il confronto con la previgente formulazione degli artt. 2621 e 2622, come si è visto in una disarmonia con il diritto penale tributario e con l’art. 2638 cod. civ. sono elementi indicativi della reale volontà legislativa di far venir meno la punibilità dei falsi valutativi”.

Per inciso, ricordiamoci dell’espressione “disarmonia”, soprattutto riferita ai reati tributari.

Passano quattro mesi e l’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione dirama la Relazione per la Quinta Sezione Penale V/003/15 nella quale emerge una critica che definirei “feroce” a tale chiarissima presa di posizione.

La Relazione dapprima spiega i motivi che hanno indotto la Suprema Corte ad affermare tale principio, per poi stroncare la conclusione di cui sopra.

Vediamo intanto i motivi della sentenza 33774:

  • il legislatore del 2015 ha ripreso la formula utilizzata dal legislatore del 2002 “fatti materiali”, diversa da quella “fatti” contenuta nell’originario art. 2621 cod. civ., per circoscrivere l’oggetto della condotta attiva, privandola però del riferimento alle valutazioni e provvedendo contestualmente a replicarla anche nella definizione di quello della condotta omissiva, in relazione alla quale il testo previgente faceva invece riferimento alle «informazioni»; in un primo momento, il disegno di legge n. 19 prevedeva di attribuire rilevanza alle “informazioni” false, adottando così un’espressione lessicale idonea a ricomprendere le valutazioni, sicché proprio tale mutamento sarebbe espressivo della intenzione legislativa di escludere la rilevanza penale del c.d. falso valutativo;
  • l’espressione “fatti materiali” era stata già utilizzata dalla legge n. 154 del 1991 per circoscrivere l’oggetto del reato di frode fiscale di cui all’art. 4 lett. f) della legge n. 516 del 1982, con il chiaro intento di escludere dall’incriminazione le valutazioni relative alle componenti attive e passive del reddito dichiarato. Il citato art. 4, lett. f), puniva infatti l’utilizzazione di “documenti attestanti fatti materiali non corrispondenti al vero“, nonché il compimento di “comportamenti fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento di fatti materiali“. Si è assunto che “Pacificamente una tale formulazione del dato normativo comportava l’irrilevanza penale di qualsiasi valutazione recepita nella dichiarazione dei redditi, in quanto ciò fu conseguenza di una scelta legislativa ben esplicitata nel disegno di legge e con la quale si vollero evitare conseguenze penali da valutazioni inadeguate o comunque in qualche modo discutibili alla luce della complessa normativa tributaria”;
  • i testi riformati degli artt. 2621 e 2622 si inseriscono in un contesto normativo che vede ancora un esplicito riferimento alle valutazioni nell’art. 2638 cod. civ. (ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza). Tale disposizione continua infatti a punire i medesimi soggetti attivi (“gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori di società….”) dei reati di cui agli artt. 2621 e 2622 che, nelle comunicazioni dirette alle autorità pubbliche di vigilanza, “espongono fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni“.

E adesso vediamo gli elementi della critica alla sentenza.

La prima motivazione è di matrice generale: cancellare la punibilità delle erronee valutazioni, in concreto, comporterebbe la sostanziale abrogazione della fattispecie: “La tutela penale dell’informazione societaria risulterebbe affidata pressoché integralmente alle ipotesi di aggiotaggio (art. 2637 cod. civ.) e di manipolazione del mercato (art. 185 TUF), con i soggetti più importanti attratti nella sfera applicativa di tali fattispecie mentre la stragrande maggioranza delle società vedrebbe – di fatto – rinviata al momento del fallimento qualsiasi forma di repressione dei fenomeni di mala gestione eventualmente perpetrati dagli amministratori”.

Un secondo gruppo di considerazioni è di ordine lessicale. La relazione infatti afferma che:

  • deve escludersi la possibilità di accordare alla non riproposizione del sintagma «ancorché oggetto di valutazioni» una qualsiasi valenza idonea ad eliminare le valutazioni dall’ambito di applicabilità delle nuove disposizioni in materia di false comunicazioni sociali;
  • deve escludersi la possibilità di attribuire alla locuzione “fatti materiali” un significato più restrittivo rispetto a quello di “fatti”;
  • deve escludersi la possibilità di attribuire alla locuzione “fatti materiali” un significato selettivo rispetto a quello di “informazioni”.

Le motivazioni sono forse opinabili; le conclusioni sono purtroppo chiarissime. E lo sono pure le conseguenze per la Cass. 12/1/2016 n. 890, infatti, “…anche le valutazioni espresse in bilancio non sono frutto di mere congetture od arbitrari giudizi di valore, ma devono uniformarsi a criteri valutativi positivamente determinati dalla disciplina civilistica (tra cui il nuovo art. 2426 c.c.), dalle direttive e regolamenti di diritto comunitario (da ultimo, la citata direttiva 2013/34/UE e gli standards internazionali Ias/Ifrs) o da prassi contabili generalmente accettate (es. principi contabili nazionali elaborati dall’Organismo Italiano di Contabilità”).

La seconda parte della massima fa chiaro riferimento all’ultima parte del parere dell’Ufficio del Massimario della Suprema Corte, ove si legge che “… non si può non tener conto, per l’esatta interpretazione della fattispecie di false comunicazioni sociali, delle cosiddette regole generali per la redazione del bilancio, cioè, del principio di chiarezza e di quello di rappresentazione veritiera e corretta” dove “… il principio di chiarezza opera all’interno delle disposizioni che disciplinano la struttura e il contenuto del bilancio, mentre, invece, il principio di verità e correttezza nell’ambito delle previsioni legislative che stabiliscono i criteri di valutazione dei diversi cespiti patrimoniali. La chiarezza dell’informazione e la rappresentazione veritiera e corretta della complessiva situazione costituiscono delle autentiche “clausole generali” che integrano e completano la relativa disciplina di dettaglio; la rappresentazione veritiera e corretta opera dunque con riferimento alla congruità e attendibilità della valutazione di bilancio”.

Prepariamoci a bilanci rigorosi ed a note integrative quanto mai attente nell’esporre i criteri valutativi.