21 Dicembre 2013

Un anno di presunzioni

di Massimiliano Tasini
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La dilagante diffusione degli accertamenti fondati sulle presunzioni è un fatto sotto gli occhi di noi tutti. Eppure, la sensazione è che si tratti di un fenomeno oramai talmente “normalizzato” da non richiedere più di tanta attenzione: come una nuova imposta o un nuovo adempimento, fa “rumore” alla sua introduzione, poi diviene elemento strutturale della vita professionale, e quasi non ci si accorge più della sua abnormità.

La teoria delle presunzioni nel corso di questi ultimi anni ha tuttavia subito una significativa evoluzione, che merita una riflessione, per tentare di individuare una via, se esiste, verso la quale stiamo più o meno consapevolmente, andando.

Una prima constatazione è che questioni che sembravano “definite” in favore del fisco hanno preso una piega significativamente pro-contribuente. Dopo gli Studi di Settore, anche l’accertamento sintetico sembra regredire da presunzione legale, seppure relativa, a mera presunzione semplice: con la fondamentale conseguenza che il Giudice non sarà ad essa vincolato, bensì potrà, a monte, ritenerla insufficiente a fondare l’atto impositivo.

Sullo sfondo si individua con chiarezza una linea di pensiero che dovrebbe oramai essere evidente per tutte le parti in causa: non si esclude la possibilità di costruire un accertamento fondato su “dati standard”, ma la sua adeguatezza, prima ancora che la sua tenuta, va verificata nel caso concreto, e tale verifica trova il suo momento centrale nel contraddittorio tra le parti.

In secondo luogo, laddove l’accertamento si fondi su una presunzione legale relativa, come nel caso degli atti impositivi basati sulle movimentazioni finanziarie poste in essere dal contribuente, vi è da chiedersi come possa essere fornita la prova contraria. Ora, rispetto alla tesi tradizionale, che pretende che il contribuente opponga a tale presunzione un fatto dotato di un sufficiente grado di certezza, la Suprema Corte, Quinta Sezione Tributaria, sta avanzando la tesi secondo cui sarebbe possibile per il contribuente dedurre anche “meri” elementi indiziari, purché ovviamente il Giudice di merito li ritenga dotati di sufficiente consistenza: questa conclusione è potenzialmente foriera di effetti dirompenti, e se si stabilizzerà attribuirà un grande “potere” alle Commissioni Tributarie, tenuto conto che nel giudizio di Cassazione sarà ben difficile scardinare la valutazione del Giudice di merito, salvo che difetti la motivazione su cui si fondi la pronuncia o che non siano stati omessi elementi decisivi per la valutazione.

Una terza constatazione sta nel fatto che sembrano ridursi le segnalazioni di fatti che potrebbero integrare reati penal-tributari alla Procura della Repubblica da parte degli Uffici finanziari. Questa conclusione, tutta riferita agli accertamenti presuntivi, per il vero non sembra sempre fondarsi sul dato normativo, atteso che, ad esempio, in materia di redditometro manca una previsione del tipo di quella contenuta nell’art. 10, sesto comma, della legge 146/1998, che esclude tale comunicazione medesima nel caso di accertamenti fondati sugli studi di settore. Si tratta di una prassi sicuramente apprezzabile, a maggior ragione allo stato attuale della normativa, contraddistinto da una dirompente diffusione dei reati penal-tributari che tradisce lo spirito che stava alla base del decreto legislativo n. 74/2000.

Il percorso troverà un suo naturale completamento laddove la Cassazione ritenesse di riprendere il dibattito sulla nozione di presunzioni gravi, precise e concordanti, richiamando gli Uffici ad un loro utilizzo in modo più rigoroso: ad esempio, rimarcando che non ogni fattispecie potenzialmente antieconomica giustifica un accertamento presuntivo, bensì solo i casi di abnorme antieconomicità. Questo consentirebbe di completare il cerchio, bilanciando al giusto interesse dell’erario quello della tutela del contribuente accertato.