14 Marzo 2016

Trasferimento intra-UE di beni ceduti in loco previo assemblaggio

di Marco Peirolo
Scarica in PDF

Nell’ambito degli scambi intracomunitari di beni può accadere che la cessione sia posta in essere dal fornitore italiano soltanto dopo l’invio dei beni nel territorio del Paese membro di destinazione.

Si consideri il caso della società italiana che spedisce i beni nel Regno Unito ove saranno assemblati dalla stessa società prima di essere venduti al cliente ivi stabilito.

L’art. 36 della Direttiva n. 2006/112/CE dispone che, “quando il bene spedito o trasportato dal fornitore o dall’acquirente oppure da un terzo deve essere installato o montato con o senza collaudo da parte del fornitore o per suo conto, si considera come luogo di cessione il luogo dove avviene l’installazione o il montaggio”.

La norma non prevede espressamente che l’invio dei beni nel Paese di destinazione debba essere effettuato in esecuzione di una cessione, per cui si potrebbe ritenere che il criterio territoriale previsto dalla norma in esame si applichi anche nell’ipotesi in cui i beni sono trasferiti da un Paese membro ad un altro in assenza dell’ordine di acquisto da parte del cliente comunitario.

Dall’analisi delle risposte fornite dalle Autorità fiscali nell’ambito della procedura di CBR (Cross Border Ruling), disponibili sul sito Internet della Commissione europea, si evince invece che il luogo della cessione non è individuato in funzione dell’art. 36 della Direttiva n. 2006/112/CE nel caso, identico a quello considerato, in cui una società francese invia i beni nel Regno Unito dove saranno assemblati dalla stessa società prima di essere ceduti al cliente inglese.

Nel documento si afferma che il fornitore francese effettua:

  • un trasferimento a “se stesso”, assimilato ad una cessione intracomunitaria ai sensi dell’art. 17, par. 1, della Direttiva n. 2006/112/CE, che beneficia dell’esenzione di cui all’art. 138 della stessa Direttiva. Il suddetto trasferimento dà luogo, nel Regno Unito, al corrispondente acquisto intracomunitario, che deve essere assoggettato a IVA dalla società francese ai sensi dell’art. 20 della Direttiva n. 2006/112/CE previa apertura di un numero di identificazione ai fini IVA;
  • una cessione interna nei confronti del cliente inglese, al quale i beni sono ceduti dopo l’assemblaggio, senza tuttavia specificare se l’obbligo d’imposta deve essere assolto dalla società francese-codice di identificazione IVA inglese o, in reverse charge, dal cliente inglese.

L’art. 36 della Direttiva n. 2006/112/CE sembrerebbe incompatibile con la disciplina dei trasferimenti a “se stessi”, assimilati alle operazioni intracomunitarie dal lato sia attivo che passivo ai sensi dei citati artt. 17 e 20 della Direttiva.

In pratica, se l’invio dei beni nel Paese membro di destinazione avviene in esecuzione di una cessione, ancorché quest’ultima si perfezioni soltanto a seguito della consegna dei beni installati, montati o assemblati, il trasferimento intracomunitario dei beni dal Paese di origine a quello di destinazione non assume un’autonoma rilevanza ai fini IVA, essendo posto in essere in dipendenza dell’operazione oggetto dell’ordine di acquisto.

Nel diverso caso in cui l’ordine di acquisto sia successivo all’invio dei beni nel Regno Unito trova, invece, applicazione il trattamento IVA esplicitato nell’ambito della procedura di CBR, con la suddivisione dell’operazione complessivamente posta in essere in due distinte operazioni, vale a dire il trasferimento a “se stessi” e la cessione interna.

Ritornando all’ipotesi precedente, in cui l’ordine di acquisto sia anteriore all’invio dei beni nel Regno Unito, la legislazione italiana si pone in contrasto con il citato art. 36 della Direttiva n. 2006/112/CE, in quanto l’art. 41, comma 1, lett. c), del D.L. n. 331/1993 qualifica come non imponibile ai fini IVA in Italia “le cessioni, con spedizione o trasporto dal territorio dello Stato, nel territorio di altro Stato membro di beni destinati ad essere ivi installati, montati o assiemati da parte del fornitore o per suo conto”.

Fermo restando che lo stesso trattamento si applica anche alle forniture di beni in dipendenza di contratti d’appalto, d’opera e simili (C.M. 23 febbraio 1994, n. 13-VII-15-464, § B.1.3), il disallineamento è evidente se si considera che la norma comunitaria qualifica l’operazione, nella sua interezza, come territorialmente rilevante nel Paese membro in cui avviene l’installazione, il montaggio o l’assiemaggio, quando invece la norma nazionale classifica l’operazione come territorialmente rilevante in Italia, sia pure in regime di non imponibilità e, in quanto tale, idonea a generare plafond per l’acquisto di beni e servizi senza applicazione dell’IVA e a concorrere all’acquisizione dello status di esportatore abituale del cedente italiano (circolare dell’Agenzia delle Dogane 27 febbraio 2003, n. 8, § 2).

Nell’ipotesi da ultimo considerata, in cui l’ordine di acquisto da parte del cliente inglese è anteriore all’invio dei beni nel Regno Unito, non è previsto – in base alla normativa inglese – l’obbligo di identificazione ai fini IVA del fornitore italiano siccome l’imposta è dovuta dal cliente con il sistema del reverse charge. Può, pertanto, affermarsi che, nonostante l’evidenziata discrasia tra la norma italiana e quella comunitaria, l’operazione resta assoggettata ad imposta in capo al cliente inglese senza che il fornitore nazionale debba aprire un numero di partita IVA nel Regno Unito.