11 Gennaio 2014

Sconti praticati, la dichiarazione dell’amministratore non vincola il fisco

di Maurizio Tozzi – Comitato Scientifico Master Breve 365
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Con un’articolata sentenza la Corte di Cassazione ha recentemente affrontato il tema delicato delle dichiarazioni rilasciate in sede di verifica fiscale. È notorio che nel processo tributario non è ammessa la prova testimoniale e le dichiarazioni effettuate, anche mediante la dichiarazione sostitutiva di atto notorio, possono al più essere valutate per corroborare il convincimento dell’organo giudicante, sia a vantaggio dell’amministrazione finanziaria che del contribuente. Nel caso affrontato dalla sentenza n. 28254 del 2013, la società ricorrente lamentava, tra l’altro, l’errata determinazione degli imponibili accertati da parte dell’Agenzia delle Entrate atteso che, nel riconoscere una scontistica nella vendita dei propri prodotti, non ha ridotto il prezzo di listino di quanto dichiarato dall’amministratore, bensì riducendo la percentuale di ricarico praticata. Tradotto in termini pratici, posto che a seguito della verifica fiscale è stata individuata una percentuale media ponderata di ricarico praticata, ancorata ai prezzi pieni di listino, si immagini del 90%, l’amministratore ha ritenuto indispensabile che vi fosse il riconoscimento dei prezzi reali praticati in periodi di sconto, la cui percentuale varia dal 20% a salire. Secondo la società ricorrente, il corretto comportamento che avrebbero dovuto tenere i verbalizzanti doveva essere quello di applicare la scontistica al prezzo di listino: della serie, se il costo di acquisto è 100 e in forza del ricarico il prezzo di vendita è 190, lo sconto del 20% avrebbe condotto ad un prezzo di vendita di 152, con dunque un ricarico effettivo del 52%. Di contro, i verificatori, pur riconoscendo l’esistenza degli sconti, hanno ritenuto di applicare la scontistica mediamente praticata nel settore direttamente nel calcolo del ricarico praticato, ridotto al 70%. Questo però ha condotto ad un risultato più elevato in termini di ricavi recuperati, posto che il prezzo di vendita è stato stimato a 170, in luogo di quello invocato pari a 152.

Il punto decisivo della controversia risiede nella totale assenza, almeno come asserito dai giudici, di documentazione in grado di provare le dichiarazioni rilasciate dall’amministratore, comunque soggetto sottoposto a verifica e che evidentemente potrebbe essere spinto ad effettuare dichiarazioni “largheggianti” nella scontistica praticata per contenere la rideterminazione dei ricavi. Sottolinea la Suprema Corte, infatti, che vi era un sostanziale “(…) difetto di riscontri documentali in ordine agli effettivi sconti applicati nel periodo soggetto a verifica della società (non erano state rinvenute annotazioni concernenti riduzioni di prezzo nella contabilità d’impresa, né erano indicati gli sconti di prezzo sugli scontrini di vendita e neppure indicazioni in proposito era dato ricavare dalla documentazione commerciale esaminata)…”, con la conseguenza pratica che “(…) non avendo disponibile alcun altro dato certo, i verificatori hanno inteso comunque considerare, ai fini della determinazione del volume d’affari, la usuale prassi nello specifico settore commerciale della concessione di sconti alla clientela (..)”.

Al che è lecito chiedersi che valenza possano avere le dichiarazioni del contribuente, sia a proprio vantaggio che a sfavore. Spesso nei verbali di verifica si legge che determinate indagini sono state condotte con la collaborazione della parte, che ad esempio illustra le modalità di vendita o di realizzazione della produzione venduta (si pensi, appunto, all’indicazione dei prezzi di vendita, della scontistica praticata, degli sfridi, degli autoconsumi, etc). Ebbene la sentenza in commento ci offre la chiave di lettura: essendo il processo tributario di tipo documentale, non sono sufficienti le mere dichiarazioni, essendo invece indispensabili i riscontri documentali in ordine all’effettività di ciò che si dichiara.

Possiamo fare qualche esempio abbastanza banale, magari riferito all’attività di ristorazione. La semplice dichiarazione che un primo è composto da circa 150 grammi di pasta, deve essere anche bilanciata con la pasta effettivamente disponibile per la produzione dei servizi venduti. Se le rimanenze iniziali sono pari ad 1 Kg, gli acquisti a 10,5 Kg e le finali a 2,5 Kg, vuol dire che sono stati impiegati 9 kg per produrre primi piatti. In forza della dichiarazione del contribuente, teoricamente sono stati offerti ai consumatori 60 primi. Si immagini allora che dai documenti fiscali emessi emerga che i primi fatturati sono 180, oppure all’incontrario 30. Inutile perdere tempo: la dichiarazione fornita è priva di qualsiasi attendibilità. E se invece i primi fatturati sono davvero 60? In questo caso la contestazione potrebbe essere la seguente: la prassi commerciale (riscontrabile anche nelle note metodologiche dell’attività di verifica), illustra che mediamente un primo è composto da 100 grammi di pasta. Ebbene, per supportare la tesi della parte sarà necessario illustrare anche la tipologia di pasta (ad esempio fresca) e la modalità con cui è servita a tavola; in tal modo la tesi illustrata potrà essere ritenuta attendibile. E via dicendo per le altre vicende.

Nel caso esaminato, ad esempio, sarebbero state utili le vendite promozionali adeguatamente documentate con tanto di richiesta all’autorità competente o ancora la documentazione completa delle vendite a stock. In definitiva, più si documentano tali delicate fasi dell’attività svolta, più le proprie dichiarazioni saranno forti anche in commissione tributaria. Cliente avvisato, mezzo salvato.