21 Febbraio 2014

“Non tutta l’esterovestizione vien per nuocere”

di Ennio VialVita Pozzi
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Per esterovestizione, come affermato nella sentenza della Corte di Cassazione n.2869 del 7 febbraio 2013, si intende la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero. In alcuni casi, il trasferimento o la costituzione della società in un Paese con un trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale è attuato allo scopo di sottrarsi al più gravoso regime nazionale.

Non sempre, tuttavia, la delocalizzazione è legata al mero risparmio fiscale. Al contrario, le delocalizzazioni produttive/commerciali sono generalmente vincolate da precisi fattori esterni non controllabili dall’impresa italiana.

Gli accertamenti in materia, più numerosi negli ultimi anni, spesso non consentono di attrarre in Italia “considerevole” materia imponibile per i motivi che ci aggiungiamo ad illustrare.

Si ipotizzi la seguente fattispecie: la società Alfa Italia detiene 3 controllate estere che svolgono attività produttiva. Gli amministratori delle società estere sono gli stessi della società italiana (persone fisiche fiscalmente residenti in Italia) e la gestione amministrativa finanziaria è eseguita dall’Italia. Due società sono in utile, la terza è in perdita.

Supponiamo che l’Amministrazione finanziaria contesti l’esterovestizione delle due società in utile poiché, ai sensi dell’art. 73 co. 3 del Tuir, la sede dell’amministrazione è nel territorio dello Stato.

Come noto, infatti, “ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato.”

Ipotizziamo che:

  1. la società estera A abbia un utile di 100 e abbia pagato imposte per 25 nel paese di residenza;
  2. la società estera B abbia un utile di 100 e abbia pagato imposte per 30 all’estero;
  3. la società estera C sia in perdita di 200.

L’Agenzia delle Entrate contesta l’esterovestizione delle società A e B. Di conseguenza, essendo considerate società fiscalmente residenti in Italia dovevano versare l’IRES pari a 27,5 poiché l’utile ammonta a 100. Supponiamo, per semplicità, che non vi siano variazioni in aumento rispetto alla determinazione della base imponibile estera.

La società A deve quindi versare come differenza di imposta 2,5 (27,5 -25) mentre la società B non deve versare nulla (30 – 27,5).

Lo scomputo delle imposte pagate all’estero a titolo definitivo è assolutamente possibile. Infatti, se supponiamo che le società A e B siano fiscalmente residenti in Italia sicuramente, nel paese estero, è presente una stabile organizzazione. Si è, infatti, proposto l’esempio di società produttive.

Come noto, l’art. 165 co. 6 del tuir stabilisce che “nel caso di reddito d’impresa prodotto, da imprese residenti, nel Paese estero, l’imposta estera ivi pagata a titolo definitivo su tale reddito eccedente la quota d’imposta italiana relativa al medesimo reddito estero, costituisce un credito d’imposta fino a concorrenza dell’eccedenza della quota d’imposta italiana rispetto a quella estera pagata a titolo definitivo in relazione allo stesso reddito estero, verificatasi negli esercizi precedenti fino all’ottavo … [….]”. La norma nazionale consente lo scomputo delle imposte pagate all’estero a titolo definitivo e il riporto in avanti e indietro per 8 esercizi in ipotesi di stabile organizzazione.

Inoltre, si dovrebbe analizzare se esistente, la Convenzione contro le doppie imposizioni tra l’Italia ed il paese estero le quali generalmente prevedono, quale metodo per evitare la doppia imposizione, il credito di imposta.

L’Irap, per normativa interna, non è dovuta sulle stabili organizzazioni estere.

Una riflessione merita la società C che, anche se amministrata dall’Italia e quindi “esterovestita” potrebbe non risultare di interesse per l’Agenzia delle Entrate. In realtà, se la gestione delle controllate è pressoché identica, dovrebbe essere accertata anche la società C in perdita fiscale; alla luce dell’art. 84 del Tuir la perdita di un periodo d’imposta può essere computata in diminuzione del reddito dei periodi d’imposta successivi in misura non superiore all’80% del reddito imponibile di ciascuno di essi e per l’intero importo che trova capienza in tale ammontare.

In sostanza, accertando anche la società in perdita fiscale, la stessa potrebbe riportare in avanti tali perdite magari compensandole con un nuovo business da svolgere in Italia o all’estero.

L’accertamento da esterovestizione non porta a significativi introiti nelle casse dello Stato in presenza di società operative. Vedremo in un prossimo intervento, tuttavia, le criticità connesse alle violazioni in materia di Iva.