30 Marzo 2015

Cicero pro bono sua

di Michele D’Agnolo
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Una delle azioni di marketing storicamente più diffuse nel mondo professionale è quella che consiste nel prestare attività gratuita a favore di soggetti collettivi non aventi generalmente scopo di lucro.

Si tratta dell’attività che gli avvocati hanno battezzato con l’espressione latina pro bono.

Stranamente, l’attività è sempre stata tollerata sia dai codici etici delle varie professioni, sia dal fisco che compiendo un atto quasi contro natura acconsente senza fare troppe manfrine a che i professionisti possano prestare la loro attività gratuitamente.

Lo scopo, neanche così velato, dell’attività pro bono, è quello di fare networking. Fare cose, conoscere gente ed avere l’opportunità di dimostrare sul campo la nostra capacità professionale, facendo toccare con mano all’entourage della collettività servita la nostra serietà (o la nostra prorompente simpatia) e la nostra capacità professionale.

E così, sciami di professionisti passano il loro scarsissimo tempo libero a sedere in prolissi consigli direttivi degli accrocchi dagli scopi più variegati e diversi. Segretario dell’Associazione per la valorizzazione e lo studio dei provvedimenti retroattivi. Tesoriere del Consorzio per la tutela della genuinità del letame. Membro del direttivo del Sindacato delle pornostar, nella vana speranza di portarsi ogni tanto del lavoro a casa. Proboviro della Pro Loco di Alcatraz. Revisore supplente dell’associazione sportiva delle biglie in salita. Presidente dell’Ente per la tutela degli uccelli (segnalo che questa lodevole iniziativa esiste veramente).

Oggigiorno, tra l’altro, l’attività pro bono assomiglia sempre più da vicino a quella esercitata nei confronti della generalità della clientela. È come in televisione, che non si capisce più se c’è una notizia o è fiction. Tre quarti dei clienti, infatti, non pagano o pagano talmente tardi che tutto l’utile è finito in conto interessi. Abbiamo faticosamente avuto il riconoscimento delle STP, ora aspettiamo con trepidazione quello di Onlus.

Molto spesso il gioco del pro bono non vale la candela, soprattutto se l’attività è svolta con autentico spirito di servizio. E così molti professionisti scoprono che le nottate passate a tentare di far quadrare i conti della bocciofila, abbandonati qualche anno fa dal precedente tesoriere, non avranno mai un ritorno adeguato né in termini di visibilità, né in termini di contatti. E invero i soci della bocciofila sono quasi tutti simpatici operai ottuagenari in pensione, che portano il loro 730 al caf e tra una partita e un bicchiere di spuma si vantano della fortuna di non essere mai dovuti incappare in un commercialista o un avvocato in vita loro.

Inoltre, lo sviluppo di clientela svolto indirettamente attraverso l’attività pro bono è spesso lentissimo, molto più lento di altre alternative. Se dessimo un valore al nostro tempo libero in termini di costo opportunità, ci accorgeremmo facilmente che ci conviene comprare una pagina sul quotidiano della città per un mese di fila invece di abbioccarci durante interminabili consigli di amministrazione che sembrano la versione maxi di un assemblea di condominio. Gli stessi meccanismi decisionali delle no profit sono lentissimi, a meno che non si tratti di autentici business opportunamente mascherati.

Occorre inoltre considerare che i pochi soggetti interessanti sono oggi costantemente bombardati di richieste. L’imprenditore in vista, titolare di una impresa di successo, riceve almeno un invito al giorno a tradire il suo notaio, commercialista, avvocato, ingegnere e così via da un competitor. E’ come corteggiare la più bella della classe. E sicuramente sarà stizzito se lo facciamo a margine del direttivo della società velica dove viene perché tenta di rilassarsi.

Inoltre, i meccanismi elettivi delle nostre no profit ci possono portare su una specie di toboga del consenso che dipende dalle cordate interne e dai meccanismi elettorali. Oggi siamo in sella ma al prossimo rinnovo di incarichi potremmo trovarci a riordinare lo sgabuzzino delle scope.

Quello che sto cercando di dire è che le attività no profit non sono tutte uguali, nemmeno ai fini del networking. E per quanto il discorso ci possa sembrare cinico, è molto più probabile conoscere un affermato imprenditore o un dirigente aziendale in un circolo tennistico che in una cooperativa sociale.

Non voglio affermare che si debba arrivare all’esasperazione dei grandi studi professionali nordamericani, che sponsorizzano la retta del club di golf al partner, purché riesca a fare amicizia con il tal imprenditore, con il tal politico o con il talaltro possidente.

Sto soltanto sostenendo che se ci si attende dall’attività pro bono un qualche effetto di marketing, è meglio scegliere con cura quali attività svolgere, in che modo e a che condizioni.

Tra l’altro, occorre prestare grande attenzione ai problemi di immagine che la partecipazione ai consessi no profit può creare. E così la partecipazione a partiti politici o ad associazioni sindacali va gestita con grande prudenza, perché potrebbe essere letta male già dall’attuale clientela dello studio. Se sono il commercialista del Che Guevara probabilmente farei meglio a non farmi fotografare in camicia nera a fare il saluto romano ai raduni di estrema destra.

Qualche collega ha risolto salomonicamente: nel suo studio associato sono equamente rappresentate tutte le forze dell’arco costituzionale. Altro che patto del Nazareno!

Gli incarichi tecnici sono quelli che tentano di più i professionisti. Sembrano i più diretti, i più adatti al networking. Presidente della banca, assessore al bilancio o alle infrastrutture del comune, della provincia o della regione. Anche trovando il modo di superare eticamente e giuridicamente incompatibilità e conflitti di interesse vari, dopo anni sottratti alla professione finiremo per scoprire che neanche un nuovo potenziale cliente ci si è avvicinato.

Anzi, spesso il ritorno di un collega che è stato molto fuori studio per incarichi vari è un momento piuttosto critico e conflittuale per tutta la struttura. Il rientro del(la) professionista a tutto assomiglia meno che al ritorno del figliol prodigo. E così dopo vent’anni di onorato servizio a vantaggio della collettività, entriamo in studio a gamba tesa e chiediamo dov’è finita la nostra scrivania e dove sono i nostri clienti. Sembriamo i prigionieri che tornano dalla guerra per poi scoprire che la moglie si è rifatta una vita. E gli altri, che già ci odiano per averci dovuto mantenere integrando il modesto obolo sborsato dall’ente che abbiamo servito, si sono dovuto ben che organizzare a fare senza di noi. E, quando non si venga direttamente alle mani, ci mettono in quarantena per un bel po’.

Gli incarichi accademici sono certamente tra i più interessanti. Anche se è dimostrato che il numero e la qualità degli atenei e delle cattedre sono inversamente proporzionali, e che ormai ogni capoluogo di provincia ambisce al proprio polo universitario, a ognuno di noi fa piacere allungare di qualche millimetro il biglietto da visita per esibire il titolo e la docenza. E ai clienti, soprattutto a quelli che non hanno mai fatto l’università e quindi bontà loro non sanno ancora di che cosa si tratta, la cosa fa ancora un certo prestigio. L’università lo sa, per questo spesso le docenze a contratto sono a titolo gratuito.

Gli incarichi sportivi di alto livello sono incarichi ancora più pericolosi di quelli politici in quanto business e potere si mescolano a formare cocktail esplosivi. Se non portate biancheria merlettata di ghisa, tenetevi alla larga.

Tanto di cappello invece a quelle professioniste e professionisti che ci credono davvero, e che senza secondi fini mandano avanti con abnegazione Associazioni culturali, sportive, ricreative, benefiche, religiose. Spesso spendendo anche ulteriore proprio denaro per farle funzionare. Con grande vantaggio della collettività e del sociale. Vedendola invece con l’occhio bieco e interessato del marchettaro, generalmente è meglio dargli subito l’otto per mille che il cento per cento del nostro prezioso tempo libero.