8 Aprile 2016

Motivazione dell’atto impositivo non modificabile in giudizio

di Luigi Ferrajoli
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L’obbligo di motivazione degli atti amministrativi, in particolare degli atti impositivi, sancito per legge dall’art. 3 L. n.241/1990 e dall’art. 7 L. n.212/00, è posto a tutela del diritto di difesa del contribuente, cui deve essere consentito conoscere i presupposti ed i motivi posti alla base della decisione dell’Amministrazione al fine di poter eventualmente impugnare l’atto amministrativo sfavorevole.

La Corte di Cassazione ha in diverse pronunce precisato che l’obbligo di motivazione dell’atto impositivo “persegue il fine di porre il contribuente in condizione di conoscere la pretesa impositiva in misura tale da consentirgli sia di valutare l’opportunità di esperire l’impugnazione giudiziale, sia, in caso positivo, di contestare efficacemente l’an e il quantum debeatur. Detti elementi conoscitivi devono essere forniti all’interessato, non solo tempestivamente (e cioè inserendoli ab origine nel provvedimento impositivo), ma anche con quel grado di determinatezza ed intelligibilità che permetta al medesimo un esercizio non difficoltoso del diritto di difesa” (Cass. n. 15842/2006; Cass. n. 25064/2006; Cass. n. 23009/2009).

Di conseguenza, una volta che l’atto impositivo sia stato emesso con una certa motivazione, questa non può essere successivamente integrata o modificata qualora il contribuente proponga ricorso avverso il medesimo atto.

Tale principio è stato recentemente ribadito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 4327 del 04.03.2016 in una fattispecie in cui un contribuente aveva impugnato una cartella di pagamento dopo avere avanzato una domanda di sgravio che era solo parzialmente accolta, avendo l’Amministrazione finanziaria ritenuto insufficientemente documentato il credito d’imposta derivante dal MIUR.

Successivamente, l’Agenzia delle entrate, nel costituirsi dinanzi alla CTP di Lecco, ammetteva che il beneficio del credito d’imposta era stato effettivamente riconosciuto dal MIUR, ma rilevava che la contribuente era incorsa in decadenza non avendolo indicato nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta 2002, ma solo in una successiva dichiarazione integrativa, a termini oramai spirati.

Il primo giudice accoglieva il ricorso, ritenendo non ammissibile il nuovo motivo di diniego sollevato dall’Ufficio, ossia la tardività dell’indicazione del credito nella dichiarazione dei redditi, che, in quanto eccepito successivamente all’emissione dell’atto opposto, non era conosciuto né conoscibile dal contribuente al momento della presentazione del ricorso introduttivo.

L’Agenzia delle entrate ha proposto appello ribadendo il predetto nuovo motivo e la CTR lo ha respinto evidenziando come: a) “l’atto impositivo debba essere sostenuto da adeguata motivazione, per consentire un consapevole esercizio del diritto di difesa da parte del contribuente“; b) “le ragioni poste a fondamento dell’atto non possano essere mutate successivamente in sede contenziosa provocata dall’impugnativa del contribuente per gli stessi motivi di garanzia del diritto di difesa“.

L’Amministrazione finanziaria ha quindi proposto ricorso per Cassazione eccependo la nullità della sentenza d’appello per omessa motivazione, laddove aveva annullato la cartella “sul rilievo che le ragioni dell’atto impositivo non dovrebbero essere modificate dall’ufficio in corso di causa, pena la lesione del diritto di difesa del contribuente“.

La Suprema Corte ha ritenuto al contrario sufficientemente motivata la pronuncia impugnata, considerando che l’affermazione ivi riportata nella parte dispositiva, secondo cui “le ragioni poste a fondamento dell’atto del fisco non possano essere mutate successivamente in sede contenziosa provocata dall’impugnativa del contribuente per gli stessi motivi di garanzia del diritto di difesa“, doveva ritenersi legittimamente correlata a quanto esposto nella parte narrativa in richiamo alla decisione di prime cure, laddove ha ritenuto che “il mutato motivo di diniego da parte dell’ufficio, ossia la tardività dell’indicazione del credito nella dichiarazione dei redditi (in luogo della mancanza di idonea documentazione) non spiegava alcun effetto perchè esso era stato adotto successivamente all’atto opposto e non era quindi conosciuto nè conoscibile dal contribuente al momento della presentazione del ricorso introduttivo“.

La Cassazione ha colto quindi l’occasione per ribadire che “la motivazione dell’atto fiscale ha la funzione di delimitare l’ambito delle contestazioni proponibili dall’Ufficio nel successivo giudizio di merito e di mettere il contribuente in grado di conoscere l’an (e il quantum) della pretesa tributaria al fine di approntare un’idonea difesa (Cass. 22003/14, 22003/14)”.

Secondo la Suprema Corte, ne consegue che l’oggetto della contesa è delimitato in via assoluta proprio dall’atto impugnato (Cass. 13056/04 e 22567/04) e l’Amministrazione non può addurre altri profili rispetto a quelli che hanno formato la motivazione dell’atto impositivo impugnato, pena l’inammissibilità dei nuovi motivi.