21 Settembre 2017

Lo sport e la riforma del terzo settore – II° parte

di Guido Martinelli
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La constatazione che una associazione sportiva dilettantistica possa ma non debba, ove non fosse anche associazione di promozione sociale, diventare ente del terzo settore, ci impone una considerazione: vale la pena che lo faccia?

Prima di rispondere una premessa è d’obbligo. Nessuna delle vigenti norme legate alla gestione giuridico–amministrativa di una associazione sportiva dilettantistica è stata modificata o abrogata dalla riforma del terzo settore. Pertanto, per le associazioni che sono solo “sportive”, nulla muta rispetto ai regimi e agli adempimenti fino ad oggi seguiti.

Cosa cambia, invece, per la ASD che decidesse di diventare ente del terzo settore. La prima domanda che occorre porsi è: potrà continuare ad utilizzare la disciplina giuridico fiscale prevista per le associazioni sportive o no? La risposta non accontenterà il lettore: solo per quanto compatibile, ossia solo per quanto il codice del terzo settore non regolamenta in maniera diversa o prevede l’abrogazione di norme preesistenti.

Infatti, essendo l’attività sportiva ricompresa nell’elenco delle attività di interesse generale, ne avremo che questa è attività propria per l’ente del terzo settore e non può, come tale, rientrare tra le attività diverse di cui all’articolo 6 del CTS.

Di conseguenza, essendo il D.Lgs. 117/2017 l’ultima disciplina entrata in vigore, tra quelle previste per le “attività sportive dilettantistiche”, non vi è dubbio che debbono intendersi implicitamente abrogate tutte le norme in contrasto con quelle indicate nel codice.

Due esempi appaiono necessari.

L’articolo 89 (che si ricorda, essendo ricompreso nel titolo X del CTS, andrà in vigore solo: “a decorrere dal periodo di imposta successivo all’autorizzazione della commissione europea …. e comunque non prima del periodo di imposta successivo di operatività del predetto registro”) prevede che agli enti del terzo settore non si applichi l’articolo 149 del Tuir. Questa norma, al suo ultimo comma, espressamente esonera le associazioni sportiva dalla applicazione dei parametri che possono produrre la perdita della natura di “ente non commerciale”. L’applicazione letterale della disposizione porterebbe, quindi, a ritenere che una sportiva che fosse diventata “ente del terzo settore” si troverebbe di fronte al rischio, in presenza dei parametri di cui all’articolo 79, comma 5, del CTS che sostituisce, per tali enti, la citata norma del testo unico delle imposte sui redditi, di perdere la natura di ente non commerciale in presenza di proventi commerciali superiori agli istituzionali non potendosi più applicare l’esclusione di cui all’articolo 149 Tuir.

Gli enti del terzo settore svolgono attività attraverso volontari o attraverso lavoratori. Addirittura, per le organizzazioni di volontariato o di promozione sociale esiste una proporzione obbligatoria (cinquanta per cento) tra lavoratori impiegati e volontari.

I volontari del terzo settore, ai sensi del comma tre dell’articolo 17 non possono essere retribuiti in nessun modo, nemmeno dal beneficiario, e possono ricevere soltanto il rimborso delle “spese effettivamente sostenute e documentate per l’attività prestata entro limiti massimi e alle condizioni preventivamente stabilite dall’ente medesimo”.

Ai sensi del precedente articolo 16: “I lavoratori degli enti del terzo settore hanno diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi …».

Questa disposizione merita una riflessione. Senza volere qui riaprire un tema già più volte trattato sulla natura dei compensi sportivi di cui all’articolo 67, primo comma, lett. m), del Tuir, le considerazioni qui diventano semplici. I soggetti che ricevessero un compenso “sportivo” da un ente del terzo settore che “fa sport” non potrebbero essere considerati volontari in quanto percepiscono quello che la stessa disposizione fiscale qualifica come compenso. Ma non potrei neanche considerarli lavoratori in quanto percepiscono un trattamento economico che, potenzialmente, sotto il profilo economico potrebbe essere rispettoso di quello minimo previsto dai contratti collettivi ma non potrebbe mai esserlo sotto il profilo normativo. Quindi per una sportiva, “ente del terzo settore” potrebbe essere messa in dubbio la titolarità ad erogare i c.d. compensi sportivi.

Ciò per non parlare di tutti gli adempimenti ulteriori in termini di comunicazione dell’importo dei compensi, di organi di controllo, rendiconti economici, ecc..

Se per una sportiva abbiamo esaminato alcuni (e ce ne sarebbero altri anche se di minor rilievo) dei motivi per i quali si potrà presumere non vi sarà grande entusiasmo all’ingresso tra gli enti del terzo settore, un problema si porrà per quelle sportive che siano già anche associazioni di promozione sociale, il cui numero non è trascurabile.

Per loro, in quanto iscritte anche nei registri delle associazioni di promozione sociale, il passaggio tra gli enti del terzo settore non transiterà attraverso un atto volitivo, come appare necessario per chi fosse solo sportiva, ma l’appartenenza al terzo settore è già insita nella natura acquisita di promozione sociale.

Costoro, pertanto, dovranno seguire tutta la disciplina del codice del terzo settore, abbandonando le norme previste per le sportive se e ove incompatibili con queste, salvo una loro cancellazione dal Registro del terzo settore.

Sport e terzo settore. Cosa cambia?