22 Gennaio 2014

Lo sport dilettantistico e l’assenza dello scopo di lucro

di Guido Martinelli
Scarica in PDF

Il provvedimento legislativo inserito nella c.d. legge di stabilità, la Legge 147/2013, ai commi 303 – 305 induce qualche altra osservazione. Infatti, pur essendo stata richiesta per i grandi stadi di calcio, una lettura attenta ci svelerà, invece, come le nuove disposizioni siano rivolte “anche” agli impianti sportivi di piccole e medie dimensioni. Ma sarà vero?

La querelle sorta sulle virtù taumaturgiche del provvedimento, numerosi sono stati gli interventi tesi a far emergere la circostanza che solo la proprietà degli stadi potrà consentire alle società di calcio di “risanarsi”, corrisponde al vero?

Se già il mondo del calcio, con la potenza economica che muove, ha ritenuto necessari interventi “compensativi” per garantire la sostenibilità dell’intervento per la realizzazione dei nuovi stadi, con tutte le possibilità finanziarie che questo comporta, cosa accadrà per impianti sportivi di diverse discipline sportive che sono caratterizzati dalla loro natura dilettantistica?

La principale caratteristica che distingue lo sport non professionistico, come meglio lo definisce lo statuto del Coni, da quello professionistico è data dall’obbligo, per i sodalizi dilettantistici, di escludere lo scopo di lucro, anche indiretto.

Ma, stando così le cose, quale potrà essere l’interesse di un club non calcistico a effettuare questo investimento?

In origine tutto lo sport viveva sotto questo divieto. Fu la novella alla legge 81/91 del 1996, nata sotto gli effetti della decisione dell’Alta Corte di Giustizia sul caso “Bosman” a recepire le istanza dei club calcistici, interessati a quotarsi in Borsa (ulteriore prova, se ce ne fosse stato bisogno, dello strettissimo legame esistente tra la legge 91/81 e il mondo del calcio) di eliminare, nel loro status, l’obbligo del reinvestimento di tutti gli utili prodotti.

Sarebbe simpatico rileggersi la campagna di stampa che appoggiò questa scelta, confrontandola con quella in atto per la nuova legge sugli stadi.

Anche allora sulla Borsa, così come ora sugli stadi, sembrava questione di vita o di morte: sulla quotazione abbiamo visto come è andata a finire, sugli stadi … vedremo.

Pertanto l’obbligo del divieto di scopo di lucro, anche indiretto, resta oggi in vigore solo per il mondo dilettantistico, confermato dal comma 18 dell’art. 90 della legge 289/2002.

Tale limite è il presupposto che ha giustificato, da parte del legislatore, il riconoscimento a tali soggetti di importantissime agevolazioni fiscali e di gestione delle risorse umane: si ricordi che le agevolazioni sui compensi ai soggetti che svolgono attività sportiva dilettantistica non ha uguali nel mondo del terzo settore (ad esclusione dei cori, bande e filodrammatiche)

Ma ne valeva la pena? Questa assenza di scopo di lucro è proprio uno scoglio insuperabile?

Non vorremmo che il tutto finisse all’italiana.

Facciamo alcuni casi e aspettiamo che qualcuno ci dica dove sia l’errore del nostro ragionamento.

Società dilettantistica che, nel pieno rispetto della disciplina in vigore, durante la sua attività accantona gli utili prodotti. Non si pensi, sul punto, agli sport di squadra, ormai ciclicamente in perdita, ma alle moderne società di capitali sportive non professionistiche che gestiscono, ad esempio, centri di fitness.

Questi, ad un certo punto, decidono di non rinnovare più l’affiliazione alla propria Federazione o al proprio ente di promozione sportiva. Così facendo “escono” dall’ordinamento sportivo e non ne sono più soggetti alle regole.

Nulla vieta, allora, di operare una trasformazione eterogenea da ente non profit, a ente profit, la cui legittimità è riconosciuta dall’art. 2500 octies del nostro Codice civile. Così, modificato lo statuto, dividersi gli utili accantonati, accumulati anche grazie alle agevolazioni ottenute come sportiva, appare irrealistico o illegittimo?

Altra faccia, della stessa medaglia, anche se meno frequente, appare essere quello della società dilettantistica che viene promossa in un campionato professionistico. Anche in questo caso, addirittura per previsione legislativa, trasformazione in ente profit e legittima distribuzione dell’utile eventualmente accantonato.

Società immobiliare che decide di realizzare un impianto sportivo. Completata la costruzione, la società invece di procedere alla gestione diretta, come sarebbe intuitivo, “genera” una sportiva dilettantistica alla quale cede la gestione dell’impianto in affitto d’azienda. Quest’ultima, utilizza le agevolazioni fiscali che le competono e, poi, trasferisce il profitto così realizzato, ampliato dalla possibilità di utilizzare i citati vantaggi del non profit, riversandolo sul canone di locazione da versare all’immobiliare che rimane proprietaria dell’impianto e delle infrastrutture

Piccola evidenziazione. Nel mercato dei “servizi sportivi”, ossia la messa a disposizione di impianti sportivi per il libero utilizzo senza finalità agonistiche (ingressi in piscina, palestra, ecc.), operano sia soggetti dell’ordinamento sportivo, come tali utilizzatori di regole fiscali e lavoristiche di favore, sotto un presupposto, quello dell’assenza dello scopo di lucro, come abbiamo visto facilmente aggirabile, e soggetti profit ai quali si applicano tutte le regole previste per il mondo dell’impresa.

Nulla da osservare da parte del Garante della concorrenza e del libero mercato?

Probabilmente il legislatore, un occhio anche a questi temi, sarebbe opportuno che lo desse e che il mondo dello sport si chiedesse la “validità” del principio dell’assenza dello scopo di lucro.