5 Dicembre 2014

Le “dieci ipotesi classiche” di indagini finanziarie

di Leonardo Pietrobon
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Le c.d. indagini finanziarie (o bancarie) non sono, da un punto di vista strettamente tecnico, un vero e proprio accertamento di carattere tributario, bensì rappresentano un’attività amministrativa diretta all’acquisizione e all’utilizzo di dati, notizie e documenti che risultano da un rapporto – continuativo o anche occasionale – intrattenuto da un contribuente con un soggetto che, per semplicità, appartiene al “mondo finanziario”. Tale attività di indagine e raccolta è, naturalmente, svolta al fine di attivare un’eventuale accertamento di natura fiscale basato sui dati e sulle informazioni raccolte e riscontrante la sussistenza di eventuali redditi non dichiarati. Tale tipo di inquadramento delle indagini finanziarie trova conferma anche nella stessa nomenclatura dell’articolo 32 D.P.R. n. 600/1973 indicato come “Poteri degli Uffici”, a dimostrazione della sopra argomentata classificazione, così come dimostrato dal richiamo operato dalle diverse fonti normative di accertamento (articoli 38, 39, 40 e 41-bis del D.P.R. n. 600/1973, articoli 54 e 55 del D.P.R. n. 633/1972 e articolo 53-bis del D.P.R. n. 131/1986) allo stesso articolo 32 del D.P.R. n. 600/1973.

Una delle domande che spesso ci si pone, nel momento in cui si viene a conoscenza di essere di fronte ad un’indagine finanziaria, è la semplice interrogazione di quale sia stato l’input che ha fatto finire il contribuente all’interno delle maglie di selezione dell’Amministrazione finanziaria, per l’effettuazione di un controllo “bancario”.

Tralasciando la classica circostanza rappresentata da una costante opera di versamento di denaro contante nel c/c acceso presso un qualsiasi Istituto di Credito, le “dieci ipotesi classiche” che, anche sulla base delle indicazioni di cui al D.L. n. 201/2011 (Decreto Salva Italia), possono fare scattare la selezione del contribuente da sottoporre a controllo, mediante tale strumento di indagine, possono essere così elencate:

  1. un’incongruenza dei dati finanziari rispetto ai dati reddituali, ossia quando l’ammontare degli accrediti eccede di gran lunga l’ammontare del reddito dichiarato dal contribuente in questione;
  2. l’utilizzo esclusivo o frequente di operazioni “finanziarie” anomale, quali possono essere le c.d. operazioni extra contro (operazioni allo sportello), come, a mero titolo esemplificativo, il cambio assegni allo sportello di una banca senza il transito per il c/c bancario;
  3. la sussistenza di un’incongruenza quantitativa tra le uscite finanziarie e le spese rilevate dall’Anagrafe tributaria, come, ad esempio, l’effettuazione di incrementi patrimoniali senza l’utilizzo dei canali finanziari;
  4. un frequente e costante accesso del contribuente alle cassette di sicurezza detenute presso i locali di uno o più Istituti di credito;
  5. l’effettuazione di frequenti e consistenti ricariche di carte di credito prepagate;
  6. un consistente utilizzo del plafond annuale delle carte di credito;
  7. l’assidua effettuazione di operazioni finanziarie, magari extra conto, da parte di un soggetto “formalmente” residente all’estero;
  8. l’utilizzo frequente e in misura importante dei canali di money transfer;
  9. le segnalazioni antiriciclaggio;
  10. la segnalazione di reati penali dal puto di vista tributario.

La lista di cui sopra di certo non persegue l’obiettivo di essere esaustiva, tuttavia, permette di effettuare alcune riflessioni di carattere meramente operativo.

Le ipotesi di cui ai punti 1 e 3 sono delle indicazioni di anomalia che, per certi aspetti, possono essere già rilevate mediante l’applicazione del “nuovo” redditometro e possono rappresentare a prima vista quelle situazioni di “evasione totale”. Tuttavia, non va dimenticato che il contribuente, tanto nel caso delle indagini finanziarie quanto in quello del redditometro, ha sempre la possibilità di dimostrare che le operazioni oggetto di contestazione, da parte dell’Amministrazione finanziaria, hanno trovato riscontro nei rispettivi modelli dichiarativi o rappresentano le classiche somme di denaro costituenti redditi esenti.

Con riferimento all’utilizzo dei money transfer (ipotesi di cui al numero 8 che precede), si ricorda che l’Agenzia delle entrate, con la nota 11 aprile 2013, ha chiarito che gli agenti esteri money transfer che svolgono la propria attività per conto di istituti di pagamento comunitari sono sottoposti alla disciplina di settore del paese in cui l’intermediario preponente ha ottenuto l’autorizzazione. Ne deriva, a parere dell’Agenzia, che, per il combinato disposto degli articoli 114-decies e 128-quater, comma 7, del Testo Unico Bancario, gli agenti esteri money transfer, pur operanti fisicamente sul territorio italiano, non sono tenuti ad iscriversi nella sezione speciale dell’albo degli agenti in attività finanziaria. Essi, invece, devono essere iscritti nel registro pubblico tenuto dalle Autorità del paese di origine, in cui viene data evidenza degli istituti di pagamento autorizzati, delle succursali e dei relativi agenti. Tuttavia, per il principio di territorialità, di cui al D.P.R. n. 605/1973, sono assoggettati agli obblighi comunicativi di natura tributaria anche i servizi di pagamento svolti in Italia da parte di agenti esteri di istituti di pagamento comunitari in regime di libera prestazione dei servizi.