24 Maggio 2017

L’accertamento induttivo in presenza di lavoratori “in nero”

di Massimiliano Tasini
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La L. 825/1971 chiedeva al legislatore delegato di informare la riforma tributaria al principio di analiticità dell’accertamento.

La regola doveva essere l’accertamento analitico.

L’eccezione doveva essere l’accertamento induttivo.

Che fosse difficile “tenere in piedi” il gettito sulla scorta dell’accertamento analitico è parso, ai più, quanto mai difficile, fin dalle prime battute.

Così è arrivato in aiuto lo stesso legislatore il quale,  da un lato, ha via via aggiunto ipotesi di accertamento induttivo; e dall’altro, ha potenziato l’accertamento analitico-induttivo, precisando con l’articolo 62-sexies del D.L. 331/1993 l’ambito applicativo.

Su queste semplici basi, gli Uffici dell’Amministrazione finanziaria hanno avviato molteplici percorsi per cosi dire “sperimentali”, volti a rendere concreti i principi ritraibili dalle norme di legge che hanno disegnato le diverse tipologie di accertamento, ma al contempo ad ampliarne i confini, “stiracchiando” alcune ipotesi, fors’anche per piegarle a esigenze di gettito.

Ne è un limpido esempio la sentenza della Cassazione 2466/2017, con la quale la Suprema Corte cassa una sentenza resa dalla Commissione Tributaria Regionale di Milano, che aveva ritenuto legittimo l’accertamento induttivo nei confronti di una impresa che aveva fatto uso di lavoro irregolare, sul presupposto che tale circostanza di per sé legittimerebbe l’utilizzo di tale tecnica accertativa.

Ricordiamo al riguardo che l’articolo 39 comma 2 D.P.R. 600/1973 – e analogamente l’articolo 55 D.P.R. 633/1972 -, legittima l’accertamento induttivo, tra l’altro, in presenza di irregolarità cosi gravi, numerose e ripetute da rendere inattendibili le scritture contabili per mancanza delle garanzie tipiche di una contabilità sistematica.

Si tratta allora di stabilire se, nella specie, le irregolarità constatate integrino o meno tali requisiti.

Nel caso in esame, osserva la difesa della ricorrente, si tratta di una impresa che impiega 49 dipendenti, mentre le irregolarità riguardano due soli lavoratori, per un importo di retribuzioni “al nero” di poco più di 6.000 euro: troppo pochi, dice la Corte, perché possa ritenersi integrata la fattispecie prevista dalla norma.

Se l’induttivo deve essere l’eccezione, occorre provare in modo rigoroso la sussistenza dei requisiti. E, nella fattispecie tali requisiti non sussistono.

È peraltro interessante che in sentenza venga citato – per il vero in mancanza di un adeguato approfondimento – il D.P.R. 570/1996, che, pur se relativo ai parametri presuntivi di ricavi e compensi, ha fornito alcuni riferimenti normativi affinchè potesse scattare la rettifica reddituale: e, tra tali parametri spica quello dell’esisenza di compensi non contabilizzati che superino però almeno il 10% delle spese di lavoro contabilizzate nello stesso periodo. In qualche modo, pare di poter ritenere che la percentuale fissata nel richiamato decreto possa costituire quanto meno un utile punto di riferimento.

La questione era già stata affrontata più volte dalla Cassazione.

Nella sentenza 24250/2016, la Corte aveva affermato in modo assai lapidario che la presenza di tre dipendenti irregolari costituisce elemento sufficiente a far scattare l’accertamento induttivo del reddito di impresa.

Molto interessante è poi la sentenza della Cassazione 20675/2014, nella quale viene confermata la legittimità di un accertamento analitico-induttivo – e dunque non un induttivo puro -, in presenza della prova della elargizione di retribuzioni in nero; nella specie, l’Ufficio aveva presunto ricavi pari ai costi neri, maggiorati però di una percentuale pari al 2% dei compensi elargiti. La Corte afferma che nel caso di specie non è stato violato il divieto di trarre presunzioni da presunzioni, poiché la presunzione dell’esistenza di maggiori ricavi è stata tratta dal rinvenimento di documenti extra-contabili nel corso della verifica fiscale.

Quest’ultima affermazione era peraltro già stata resa nella precedente sentenza Cassazione 2593/2011, nella quale i Giudici avevano precisato che, in tanto può parlarsi del divieto di trarre presunzioni da presunzioni, in quanto vengano in concreto desunte presunzioni semplici sulla scorta di presunzioni semplici; mentre, laddove il fatto ignoto – ricavo – è desunto da un fatto noto, il contribuente non può lagnarsi dell’operato dell’Ufficio.

La sentenza da ultimo citata è particolarmente interessante, poiché dalla stessa emerge che l’Ufficio, al fine di quantificare i ricavi asseritamente omessi, aveva assunto parametri che tenevano nel dovuto conto della qualifica e delle mansioni del lavoratore.

Emerge dunque un approccio tendenzialmente prudente da parte dell’Agenzia delle Entrate. Il che non può che essere letto positivamente, dovendosi ritenere inaccettabile l’applicazione di moltiplicatori irragionevoli ed acritici, che di certo non favoriscono approcci di compliance.

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