10 Marzo 2015

Il fallimento delle “società sportive”: ASD e SSD a confronto

di Guido MartinelliMattia Cornazzani
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La recente Sentenza n. 16/15 emessa dal Tribunale di Genova Sez. Fallimentare, depositata in cancelleria in data 11.02.2015, costituisce un valido riferimento per approfondire l’impatto delle procedure concorsuali nella vita dei soggetti giuridici che popolano il mondo sportivo, con particolare riguardo al caso in cui lo stato di dissesto ed insolvenza siano irreversibili.

Nel caso in esame la domanda è presentata a cura della medesima ricorrente – una Società Sportiva Dilettantistica a Responsabilità Limitata – la quale richiede in proprio il fallimento riconoscendo, in via confessoria, l’obiettivo ed irreversibile stato di insolvenza derivante dalle consistenti perdite e dalla considerevole riduzione dei ricavi registrate nell’ultimo triennio.

Il Collegio adito accoglie l’istanza, a seguito di una succinta e condivisibile serie di rilievi. In primo luogo i giudici di merito, richiamandosi al consolidato orientamento della Cassazione sul punto (Cass. Civ. Sez. I n. 8374/00), riconoscono la qualifica di imprenditore commerciale e la conseguente assoggettabilità alla procedura concorsuale in capo ad ogni soggetto che, sostanzialmente, svolga in via esclusiva o prevalente attività di impresa commerciale.

La decisione prosegue ricordando un principio della Suprema Corte (C. Cass. Sez. I, 24.03.2014 n. 6835) secondo il quale: Lo scopo di lucro (c.d. lucro soggettivo) non è elemento essenziale per il riconoscimento della qualità di imprenditore commerciale, essendo individuabile l’attività di impresa tutte le volte in cui sussista una obiettiva economicità dell’attività esercitata, intesa quale proporzionalità tra costi e ricavi (c.d. lucro oggettivo)”.

Se, da un lato, tale affermazione potrebbe essere discutibile nella misura in cui è idonea ad ampliare indistintamente il novero dei “soggetti fallibili”, dall’altro non si può certo omettere di riconoscere che oggi – a qualsiasi livello – la gestione delle “società sportive”, ASD o SSD che siano, tende ad essere, di fatto, esercizio di attività anche economica, almeno con riferimento all’investimento di tempo, risorse e competenze all’uopo necessarie.

In tale scenario, posto che ormai la giurisprudenza è sempre più propensa ad accogliere un’interpretazione estensiva e sostanziale del concetto di “esercizio dell’attività economica”, pare opportuno domandarsi quali possano essere i rimedi pratici per tutelare gli operatori del mondo sportivo dilettantistico, che spesso sono organizzati in strutture troppo “amatoriali”.

Rimarcato che, comunque, stiamo parlando di realtà che abbiano i requisiti dimensionali previsti dalla legge fallimentare, si pongono ulteriori interrogativi.

Il primo, legato alla natura delle società sportive di capitale. La loro natura di società senza scopo di lucro ha indetto qualche autore, nel passato, ha ritenere che, per contrasto con l’art. 2247 Cod.Civ., queste fossero società di diritto speciale e, come tali, non potessero godere dello schermo della responsabilità limitata. La moderna giurisprudenza è, invece, rivolta a ritenere che siano, a tutti gli effetti, società riconducibili al libro quinto del codice civile e, pertanto, come tali, soggetti dotati di autonomia patrimoniale perfetta.

Ciò consente di accantonare, per tali soggetti, la problematica che, invece, si apre per le associazioni sportive costituite ai sensi degli artt. 36 e segg. Cod.Civ., ovvero per quelle prive di personalità giuridica.

Nei loro confronti, ed è questa la domanda che ci si pone, sussistendone ovviamente i requisiti previsti dalla legge, l’eventuale declaratoria di fallimento si estende, in analogia con quanto accade per le società di presone, anche ai singoli soci illimitatamente responsabili o no. E se così fosse, detto fallimento ricadrebbe su tutti i soci indistintamente?

Se una prima fase della elaborazione giurisprudenziale aveva portato ad una estensione della declaratoria di fallimento anche ai singoli soci “amministratori”, paragonati ai soci delle società di persone illimitatamente responsabili, successive pronuncie, del tutto condivisibili, hanno portato a limitare la procedura solo all’associazione senza estenderla agli associati.

Ciò sul presupposto che, contrariamente a quanto accade nelle società di persone, dove non esiste distinzione tra il patrimonio della società e quello dei singoli soci, nelle associazioni non riconosciute, pur in assenza di autonomia patrimoniale perfetta, secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalente, esiste comunque un patrimonio della associazione distinto da quello dei singoli associati. Tant’è che il credito del singolo non ha azione nei confronti del patrimonio della associazione.

 

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