8 Gennaio 2016

Il contratto di sponsorizzazione

di Guido Martinelli
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Negli anni ’60 la necessità da parte delle aziende di reperire nuove forme di comunicazione commerciale, in presenza del monopolio televisivo da parte della Rai, si associava all’interesse delle società sportive di reperire nuove fonti di ricavo. Da qui, in special modo nella pallacanestro, con gli storici abbinamenti con i marchi Ignis e Simmenthal, si decise in alcune discipline sportive di “sporcare” la maglia degli atleti con le denominazioni commerciali di aziende o prodotti interessati alla visibilità offerta dallo sport (ricordo i dibattiti del tempo dove i “calciofili” difendevano la purezza delle loro maglie lamentando che la presenza del nome dello sponsor avrebbe allontanato i tifosi dal club, sarebbe simpatico ripubblicare oggi gli scritti del tempo).

Si diffuse, quindi, uno strumento tecnico privatistico, un nuovo tipo contrattuale, denominato “contratto di sponsorizzazione o di abbinamento” in cui convivevano parecchie anime, di cui una a carattere fondamentalmente unilaterale in cui il Presidente del club, industriale, attraverso la stipula del contratto in esame per mera copertura fiscale, in realtà eseguiva atti di donazione con risorse aziendali per spirito di mecenatismo, ove il rapporto prescindeva da qualsiasi sinallagma contrattuale. Tale tesi ha trovato conferma anche nella disposizione prevista all’ottavo comma dell’articolo 90 della legge 289/02 laddove la sponsorizzazione sportiva si “presume” spesa pubblicitaria fino all’importo annuo di euro 200.000 prescindendo quindi da ogni valutazione di economicità della spesa. Si è passati ad una ulteriore fase (sponsorizzazione impropria), in cui lo sponsorizzato si obbligava a tollerare, per così dire, che lo sponsor rendesse noto il proprio marchio/prodotto con l’inserimento del marchio sulle maglie di gioco degli atleti, con le dimensioni massime consentite dalle norme delle federazioni nazionali e internazionali, per arrivare ad un’ultima fase (sponsorizzazione vera e propria), in cui lo sponsor non si accontenta di un mero comportamento accondiscendente dello sponsorizzato, ma richiede a quest’ultimo specifici comportamenti, sicché il contratto diviene a prestazioni corrispettive e deve garantire un equilibrio (“inerenza ed economicità”) nei rapporti tra le parti.  Qui si inserisce una tendenza giurisprudenziale, sempre più emergente e che non si può rilevare senza preoccupazione, secondo la quale la sponsorizzazione è tale ai fini fiscali solo se produce per l’azienda o comunque tende ad incrementare le vendite. Questo metterebbe “fuori gioco” tutti i marchi che non hanno beni destinati al mercato dei privati consumatori. Nell’accezione di fattispecie che persegue un intento promozionale, volta ad ingenerare o ad accrescere la propensione al consumo, il termine sponsorizzazione sembrerebbe coincidere con quello di pubblicità.

Nel tentativo di definirla, essa, piuttosto, è una forma di pubblicità più complessa, distante però dagli schemi tradizionali; connotata in modo tale da render difficile tanto apprestarne una disciplina normativa ad hoc quanto ricondurla entro le figure contrattuali consolidate.

Per quanto riguarda, in particolare, la fattispecie delle sponsorizzazioni sportive, l’unico riferimento definitorio di carattere civilistico si ricava dal comma 8 del già citato articolo 90 della legge n. 289/2002 che introduce una presunzione di inquadramento, ai fini fiscali, come spesa pubblicitaria, dei “corrispettivi, in denaro o in natura in favore di società, associazioni sportive dilettantistiche volti alla promozione dell’immagine o dei prodotti del soggetto erogante mediante una specifica attività del beneficiario”.

La legge non offre nessuna disciplina organica del contratto in esame.

Possiamo ritenerlo un contratto:

  • innominato, in quanto non disciplinato espressamente dal legislatore;
  • consensuale, in quanto si perfeziona con il semplice consenso manifestato dalle parti;
  • a titolo oneroso e a prestazioni corrispettive, in quanto le attribuzioni patrimoniali effettuate reciprocamente dalle parti sono legate dal c.d. sinallagma;
  • con obbligazioni di mezzi e non di risultato.

La caratteristica dell’accordo, che lo distingue, ad esempio, dalla pubblicità tabellare o da quella che si realizza attraverso spot televisivi, è che l’azienda si ritrova in una posizione “debole” rispetto a chi è sponsorizzato, poiché le sue pretese e le sue speranze poggiano su una combinazione quanto mai precaria di fattori in larga misura imprevedibili e incontrollabili: una serie di sconfitte od un insuccesso di pubblico pesa inevitabilmente sul “ritorno pubblicitario” atteso dallo sponsor. Del resto la squadra o il singolo atleta non può impegnarsi contrattualmente a raggiungere un determinato risultato sportivo, né può garantire l’assoluta immunità da incidenti fisici che impediscano l’esercizio dell’attività sportiva: eventualità, queste, che rientrando nell’ambito del fatto imprevedibile, non possono costituire oggetto di impegno contrattuale.

Pertanto, il verificarsi di tali eventi rientrerebbe nell’alea normale del contratto di sponsorizzazione ed in tali casi lo sponsor non potrebbe richiedere la risoluzione del contratto ed il risarcimento dei danni per il combinato disposto degli articoli 1453-1467 codice civile.