3 Febbraio 2014

Gli errori da non fare nell’atto istitutivo di un trust

di Ennio Vial
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Una sentenza del Tribunale di Trieste dello scorso 22 gennaio ci consente di evidenziare alcuni degli errori da non fare nella redazione dell’atto istitutivo di un trust.

In sede di reclamo tavolare, il Tribunale ha dichiarato non riconoscibile un trust interno sottoposto alla legge di Jersey che, nella sostanza, considera la segregazione del patrimonio al rango di causa e non enuncia alcun programma meritevole di tutela.

Si ricorda come la Legge di Jersey sia stata emanata nel 1984 e più volte modificata tra cui, di recente, nel 2013.

Nel caso di specie il disponente, essendo anche il beneficiario principale del trust, sembra aver inteso rendere non aggredibile il proprio patrimonio per poterne godere in futuro indipendentemente dagli eventi successivi che lo interesseranno.

I giudici, nel non riconoscere la meritevolezza dell’interesse, si sono poi soffermati sulla Legge di Jersey, una delle leggi più utilizzate, mettendola in una luce non sicuramente favorevole, anche se con argomentazioni non sempre condivisibili.

I giudici evidenziano come l’analisi della meritevolezza prevista dall’art. 1322 del c.c. presupponga un’attenta ponderazione tra l’interesse concretamente conseguito e la limitazione della garanzia patrimoniale di cui all’art. 2740 del c.c.

Va innanzitutto sottolineato come nessuna sentenza (o risoluzione dell’Agenzia delle entrate) in materia di trust possa essere fatta oggetto di giudizio se non si legge con la dovuta attenzione l’atto di trust (che nel caso di specie non è a nostra disposizione) e se non si conosce la realtà sottostante che caratterizza il caso concreto.

Alcuni spunti sono tuttavia interessanti. Si ribadisce per l’ennesima volta come la segregazione del patrimonio sia un effetto e non lo scopo del trust. Espressioni che talora si leggono in taluni atti come “lo scopo del presente trust è quello di proteggere il patrimonio del disponente” sono quindi assolutamente inopportune.

Ciò che importa, tuttavia, non è esclusivamente quanto dichiarato ma altresì quanto emerge dalla situazione effettiva tenendo conto del contegno delle parti coinvolte, del patrimonio in trust e del funzionamento dell’istituto in generale.

Utili spunti, a prescindere dalle finalità per cui sono stati dati, possono essere la circolare n. 61/E/2010 dell’Agenzia delle entrate e il comunicato (2 dicembre 2013) dell’Unità di Informazione finanziaria della Banca d’Italia.

Uno dei motivi di doglianza dei giudici circa la Legge di Jersey attiene ai c.d. reserved powers di cui all’art. 9A.

Si citano, ad esempio, il potere di modificare o revocare le disposizioni del trust, di anticipare assegnare il reddito o il capitale del Trust, di impartire direttive vincolanti al trustee in merito alla gestione dei beni in Trust.

Abbiamo evidenziato già tempo addietro come i reserved powers tendano spesso a minare la bontà del trust in quanto determinano un potere invasivo del disponente sull’istituto.

Anche qui, tuttavia, la questione va valutata caso per caso. Infatti, se può apparire un tema sensibile la modificabilità del trustee o dei beneficiari da parte del disponente, la modificabilità del guardiano appare assolutamente accettabile, se non addirittura opportuna.

Si legge, nella sentenza, come il legislatore di Jersey ha grandemente limitato la possibilità che un trust venga dichiarato sham, e quindi nullo, sulla base della conservazione in capo al disponente di una serie di poteri, pregnanti, di gestione e amministrazione del trust.

Viene inoltre correttamente evidenziato come, ai sensi dell’art. 16 della legge 31 maggio 1995, n. 218, l’applicazione della legge di un Paese esterno non comunitario nell’ordinamento italiano potrebbe essere inibita qualora determinasse effetti contrari all’ordine pubblico.

Ordine pubblico che si deve intendere come insieme dei principi essenziali della “lex fori”, e che si identifica in norme di tutela dei diritti fondamentali: tale limite deve essere garantito con riguardo non già all’astratta formulazione della disposizione straniera, bensì “ai suoi effetti”, cioè alla concreta applicazione che ne debba fare il giudice.

La sentenza conclude affermando che se il risultato pratico dell’operazione non sia meritevole di tutela “in termini nitidi” occorre valutare con massimo rigore la compatibilità dell’istituto con l’ordinamento interno in quanto la lettera e lo spirito dell’art. 13 Convenzione dell’Aja non obbligano il giudice a riconoscere un trust interno.