7 Agosto 2017

Fatture false e condotta illecita dell’amministratore

di Marco Bargagli
Scarica in PDF

L’articolo 2 del D.Lgs. 74/2000 (rubricato dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti) sanziona – ai fini penali tributari – con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi.

Nello specifico, la condotta penalmente rilevante si realizza quando le fatture e/o gli altri documenti per operazioni inesistenti (es. note debito) vengono registrati nelle scritture contabili obbligatorie, ossia sono detenuti a fine di prova nei confronti dell’Amministrazione finanziaria.

Come espressamente confermato dal Comando Generale della Guardia di Finanza, “l’inesistenza della fattura può essere oggettiva, in quanto la stessa documenti operazioni in realtà mai avvenute, in tutto o in parte, ovvero soggettiva, qualora l’operazione documentata sia in realtà intercorsa fra soggetti diversi da quelli risultanti dalla fattura medesima” (cfr. circolare 1/2008, volume 2, pagina n. 147).

Nel medesimo documento di prassi, viene posto in evidenza che la fattura per operazioni inesistenti può essere preordinata, tra l’altro, a:

  • usufruire di indebite detrazioni dell’imposta relativa alle fittizie acquisizioni di beni o servizi;
  • compensare indebitamente l’Iva a debito determinata dalle operazioni imponibili effettuate;
  • aumentare il volume d’affari, allo scopo di ottenere anticipazioni bancarie o comunque finanziamenti, stornando successivamente le medesime operazioni attraverso l’emissione di note di credito finalizzate all’abbattimento del debito d’imposta ai fini Iva e del relativo ricarico ai fini delle imposte sui redditi.

Sul tema delle fatture soggettivamente inesistenti la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24307 del 19 gennaio 2017, ha stabilito che è penalmente rilevante la condotta del manager aziendale che fa emettere una fattura alla società, per una prestazione di servizio eseguita personalmente da parte dell’amministratore.

La controversia risolta dagli ermellini ha preso spunto da una verifica fiscale nel corso della quale era stato accertato che una società di capitali aveva fatturato una prestazione di servizio (rectius una mediazione relativa alla cessione di una partecipazione), effettuata in realtà dalla persona fisica.

In esito all’ispezione documentale erano emersi i seguenti elementi di sintesi:

  • gli importi indicati in fattura erano state accreditati sul conto corrente della società;
  • i proventi (ricavi) indicati nel documento fiscale emesso, non erano confluiti nella dichiarazione dei redditi presentata dalla società;
  • le somme versate per la remunerazione della prestazione di mediazione erano confluite sui conti personali dell’amministratore che aveva eseguito una serie di prelievi senza, tuttavia, dichiarare i compensi.

Ciò posto, sulla base di un consolidato orientamento giurisprudenziale, qualora l’Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’utilizzo o l’emissione di fatture per operazioni in tutto o in parte inesistenti, l’onere della prova grava nei confronti dell’Ufficio che dovrà dimostrare che l’operazione commerciale in realtà non è mai avvenuta, ossia che la stessa è intervenuta tra soggetti diversi rispetto a quelli indicati nel documento fiscale, nonché il coinvolgimento attivo nella frode da parte dell’acquirente.

Tale assunto è stato confermato dalla suprema Corte di Cassazione anche nella sentenza n. 4335 del 04 marzo 2016, ove è stato tuttavia precisato che l’onere della prova può ritenersi assolto qualora l’Amministrazione finanziaria fornisca attendibili indizi, connotati dagli elementi della gravità, precisione e concordanza, idonei giuridicamente a integrare una presunzione semplice ex articolo 2727 del codice civile.

In definitiva, sulla base dell’orientamento espresso nel tempo dalla giurisprudenza di legittimità, l’Amministrazione finanziaria dovrà dimostrare:

  • la natura di “mera cartiera” del cedente/fornitore la quale, normalmente, opera per pochi mesi, senza presentare dichiarazioni dei redditi, senza versare le imposte dovute, risultando priva di idonea struttura materiale in termini di attrezzature, uomini e mezzi;
  • la consapevolezza del cessionario/committente della frode fiscale.

Quindi, il coinvolgimento attivo nel meccanismo fraudolento da parte del cessionario, potrà essere dimostrato anche sulla base di un quadro probatorio indiziario basato su presunzioni semplici purché, come detto, caratterizzate dai caratteri della gravità, precisione e concordanza.

Tornando al caso recentemente risolto in apicibus la suprema Corte, nella citata sentenza n. 24307 del 19 gennaio 2017, ha affermato che: le operazioni soggettivamente inesistenti devono ritenersi configurabili anche quando, come nel caso di specie, la fattura rechi l’indicazione di un soggetto erogatore della prestazione imponibile diverso da quello effettivo (..). Anche in una siffatta ipotesi, del resto, il documento esprime una chiara capacità decettiva, idonea a impedire la identificazione degli attori effettivi delle operazioni commerciali, precludendo o comunque ostacolando la possibilità dell’accertamento tributario e palesando, in questo modo, un nucleo di disvalore che ne giustifica pienamente la riconducibilità all’area del penalmente rilevante”.

Dottryna