22 Giugno 2016

Evviva! Il professionista non deve ricercare la documentazione

di Giovanni Valcarenghi
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Il concitato periodo di chiusura dei bilanci e delle dichiarazioni, unitamente ad una recente sentenza della Cassazione, ci dà l’occasione per gridare a squarciagola che “il commercialista non ha l’obbligo di reperire la documentazione che il cliente distratto non gli consegna”. Tante altre cose le deve fare, ma almeno questa no.

Sarà poco, potrete pensare, ma coi tempi che corrono bisogna accontentarsi, specialmente dopo che la stessa Cassazione ha affermato (per dirne alcune) che:

  • il commercialista deve comunque applicare la normativa fiscale vigente, avendo l’obbligo professionale di applicare la propria diligenza qualificata, che gli impone di conoscere i principi del diritto tributario e, ad esempio, non dedurre alcuni costi non riconosciuti dal fisco (principio più che mai di attualità in queste settimane);
  • il commercialista, che ha consigliato il cliente nell’ambito di una operazione di cessione di azienda, è responsabile del fatto che la plusvalenza rinveniente da tale cessione non sia stata inserita all’interno del modello Unico e, per conseguenza, non tassata;
  • il commercialista che tiene la contabilità di una società “cartiera” non può non avvedersi della inconsistenza dell’attività della società, con la conseguenza che si renderebbe autore del reato di emissione e di utilizzo di fatture per operazioni inesistenti.

Fermiamoci qui, è più che sufficiente.

La gioia dell’apertura del pezzo è allora data (e forse ora più comprensibile) dalla lettura della sentenza n. 12463, depositata dalla Cassazione lo scorso 16.06.2016 che ci delinea un orizzonte con qualche nuvola e qualche squarcio di cielo sereno. Si tratta di una vicenda nella quale una imprenditrice richiede un risarcimento danni al proprio commercialista per una serie di presunte inadempienze, che vanno dalla irregolare predisposizione dell’inventario (le merci destinate alla vendita erano state raggruppate in categorie non omogenee e, peraltro, il professionista “avrebbe smarrito il brogliaccio ed iscritto dati del tutto inventati”), all’esistenza di un piccolo saldo negativo di cassa (per un solo giorno), all’annotazione solo parziale dei consumi di energia, all’errata integrale detrazione dei costi per riscaldamento nonostante l’impianto per l’azienda e per l’abitazione privata fosse unico ed altre irregolarità. Il tutto, ovviamente, rigorosamente emerso a seguito di un accertamento dell’Amministrazione finanziaria.

I motivi elencati in sentenza sono molteplici e ricchi di sfaccettature riguardanti la procedura (attendibilità di testi, di perizie del CTU, ecc.); ne estrapoliamo alcuni che ci paiono significativi.

Innanzitutto, l’affermazione secondo cui incombe sull’istante provare la difettosa od inadeguata prestazione professionale. Nella responsabilità contrattuale, infatti, spetta al danneggiato fornire la prova sia dell’esistenza del danno lamentato, sia della sua riconducibilità al fatto (e quindi all’inadempimento) del debitore. II presunto danneggiato, insomma, ha l’onere di provare, sia l’inadeguata prestazione professionale, sia l’esistenza del danno, sia il nesso di causalità tra la prestazione professionale inadeguata ed il danno. Pertanto, correttamente, nel caso in esame, la Corte ha affermato che “pur volendo, in via di mera ipotesi, ritenere dimostrata la colpa professionale dell’appellato che, per le ragioni sin qui esposte, deve essere esclusa ai fini dell’accoglimento della domanda risarcitoria l’appellante avrebbe dovuto provare il nesso causale tra la condotta del … ed il danno lamentato, una prova, che secondo una valutazione dei fatti, non sarebbe stata raggiunta”. Quindi, concretamente, per identificare una responsabilità del commercialista era necessario che l’istante dimostrasse che l’accertamento tributario ordinario avrebbe dato esito diverso e/o, comunque, dimostrasse che se il professionista avesse mantenuto le condotte asseritamente dovute sarebbe stato evitato con certezza o ragionevole grado di probabilità l’accertamento induttivo ed il conseguente recupero di imposte, sanzioni ed interessi. E, tale prova, non è stata fornita; anzi, dalla documentazione sarebbe emerso, invece, l’esatto contrario, dato che dal processo di constatazione risultavano evidenziate circostanze estranee all’attività del commercialista integranti di per sé i presupposti dell’accertamento induttivo.

In merito alle fatture “fantasma”, si riteneva che il professionista fosse responsabile della mancata registrazione di cinque delle sei fatture Enel, “perché è piuttosto prassi dei professionisti, oltre che loro dovere giuridico sollecitare la consegna quanto meno di quella documentazione di spese notorie”. È invece stato ritenuto condivisibile il principio secondo cui il commercialista redige le scritture contabili sulla base dei dati forniti dal cliente, non essendo esigibile un’autonoma attivazione da parte del professionista al fine di reperire voci di spesa da annotare nelle scritture.

Una ulteriore contestazione riguardava la mancata informazione del fatto che, in caso di sconto praticato ad una vendita al dettaglio, lo scontrino doveva essere emesso al lordo, avvalorato dalla nota motivazione giuridica secondo la quale “se il contribuente pagava il commercialista non era tenuto a leggere la Gazzetta Ufficiale”! Anche in questo caso, è stato dimostrato che non era compito del commercialista sovrintendere l’attività operativa, con la conseguenza che poteva anche non essere al corrente del fatto che fosse praticato lo sconto.

Infine, abbastanza singolare anche la pretesa di addossare al professionista il fatto che avesse dedotto integralmente le spese di riscaldamento, nonostante l’impianto fosse asservito – in comune – anche all’abitazione privata; in fondo, si afferma nella richiesta, era consulente anche della famiglia e quindi doveva sapere che nello stesso fabbricato insisteva sia il negozio che l’abitazione e dunque la deducibilità al 50% dei costi (qui, etichetterei il problema con lo slogan “il commercialista termotecnico”). In tal caso, il problema è stato aggirato essendo stato qualificato come nuova eccezione, senza dunque scendere al cuore della vicenda.

Insomma, per cercare di trarre qualche conclusione di sintesi, mi parrebbe di poter rilevare, da un lato, l’esistenza di un principio regolatore del rapporto tra professionista e cliente, nell’ambito del quale il primo si impegna a dare rappresentazione contabile ai documenti ed accadimenti che sono consegnati / segnalati dal secondo. Certamente, potremmo poi ricordare che potrebbe essere buona prassi (ma non obbligo) segnalare l’assenza di documenti, magari rilevabili anche da movimentazioni finanziarie sospese, come il pagamento delle bollette.

In secondo luogo, appare anche degno di nota come ogni vicenda di natura fiscale e amministrativa potrebbe dare astrattamente adito ad una contestazione successiva, essendo sostanzialmente impossibile rendere edotto il cliente di ogni risvolto delle norme vigenti. In tal senso, ricaverei il principio in forza del quale bisognerebbe porre la massima attenzione nella redazione dei mandati professionali, evitando dizioni generiche ed onnicomprensive in merito al rispetto della vigente normativa. Magari, si potrebbe anche specificamente regolamentare il flusso di richieste e risposte in modo che resti traccia di quanto domandato e della soluzione fornita.

Già questo mi basta; ho già mentalmente annotato alcune cose che dobbiamo fare per migliorare la nostra posizione. Ora, però, non abbiamo tempo per farle, stiamo lavorando a testa bassa; rinviamo al primo momento libero, che forse mai verrà.