9 Dicembre 2014

Disclosure definitiva: conviene fare alcune valutazioni?

di Giovanni Valcarenghi
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Il giorno 4 dicembre 2014 il Senato ha approvato in via definitiva il disegno di legge sulla voluntary disclosure; con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, dunque, si potrà materialmente disporre di uno strumento che sembra essere l’ultimo ideale punto di contatto tra scenario vecchio e nuovo in tema di detenzione di capitali all’estero.

A testimonianza dell’attesa che circonda la tematica, sono già stati anche pubblicati i modelli in bozza sul sito dell’Agenzia delle entrate (modelli in bozza).

Nelle prossime edizioni torneremo a parlare dell’aspetto tecnico della vicenda, che verrà analizzata anche in aula nella giornata di gennaio del Master Breve ed in eventi della formazione specialistica; in questo momento, invece, ci interessa una riflessione di natura generale.

E’ come se ci volessimo porre una domanda di natura generale: può valere la pena di valutare l’istituto a prescindere dal costo della sanatoria?

Dietro all’interrogativo, ovviamente, risiedono:

  • da un lato, il riscontro pressoché unanime della dottrina che ritiene eccessivamente gravosa la pretesa del Fisco;
  • dall’altro, il generalizzato fenomeno di “abbassamento della guardia” da parte anche dei più recalcitranti paesi difensori di una qualche forma di “segreto bancario”.

Dalle stime effettuate, sembra che oltre il 90% dei capitali all’estero sia collocato o transitato in Svizzera, paese che sostanzialmente ha affermato che dal 2018 “toglierà i veli”.

Non solo vi è questa prospettiva, ma addirittura sembra che le informazioni saranno disponibili con effetto retroattivo sin dal 2014/2015, unitamente alla considerazione che, trattandosi di paese black list, si applicano anche le presunzioni di costituzione dei capitali derivanti da evasione fiscale.

Ciò significa che anche eventuali prospettate “transumanze” dei capitali verso paesi che rappresentano nuove frontiere per il segreto bancario non sembrano poter garantire una soluzione efficacie, poiché resterebbe comunque traccia del pregresso.

Allora la riflessione appare quanto mai delicata, per i seguenti motivi:

  1. la presenza di capitali all’estero diverrà più vulnerabile in termini di rischio di accertamento;
  2. ove il paese di detenzione sia black list, possono scattare delle maggiorazioni e delle presunzioni in caso di accertamento;
  3. l’input di continuare a combattere i paradisi fiscali giunge direttamente dai documenti comunitari, quindi non pare si tratti di un capriccio dell’attuale legislatore, pertanto suscettibile di un successivo (e, magari, repentino) cambio di rotta.

Se tutto quanto sopra è vero, in realtà non pare potersi disporre di una grande discrezionalità nella scelta, per il semplice motivo che il panorama successivo appare davvero grigio.

Quindi, forse più correttamente, si dovrebbe valutare la disclosure come una sorta di ultima occasione per rimuovere patologie del passato, oggi non più in linea con le nuove modalità di accertamento.

Il tempo non manca, poiché la “pratica” può essere attivata sino al prossimo mese di settembre 2015 (con riferimento alle violazioni commesse sino al 30 settembre 2014), sia pure con l’accortezza di rammentare che la emersione deve essere assolutamente volontaria e, quindi, rimane bloccata nel caso di avvio delle operazione di controllo o accertamento.

Allora, il primo passo da fare, a parere di chi scrive, è quello di trasferire ai clienti il clima attuale ed una ragionevole previsione delle prospettive future: compreso il livello di condivisione di tali indicazioni, si potrà poi passare a valutare il costo della disclosure. Tema, quest’ultimo, che di fatto propone l’obbligo di pagamento delle imposte dovute, unitamente al beneficio della riduzione ad un quarto delle sanzioni.

Ciò significa che, oltre al costo, non può essere trascurato nemmeno l’onere della ricostruzione dei redditi stessi.

L’unica scappatoia che sembra esserci è quella della possibilità di applicare la procedure “alleggerita” forfetaria che, tuttavia, interessa solo patrimoni di importo limitato a 2 milioni di euro.

In particolare, “su istanza del contribuente, …, l’Ufficio, in luogo della determinazione analitica dei rendimenti, calcola gli stessi applicando la misura percentuale del 5 per cento al valore complessivo della loro consistenza alla fine dell’anno e determina l’ammontare corrispondente all’imposta da versare utilizzando l’aliquota del 27 per cento. Tale istanza può essere presentata solo nei casi in cui la media delle consistenze di tali attività finanziarie risultanti al termine di ciascun periodo d’imposta oggetto della collaborazione volontaria non ecceda il valore di 2 milioni di euro.

Per tali casi, dunque, si forfetizza sia il reddito che la tassazione, il che potrebbe non essere poco, pur se confronti con i precedenti provvedimenti di scudo fiscale appaiono chiaramente non sostenibili.