30 Luglio 2016

La differenza tra il collezionista ed il mercante d’arte

di Comitato di redazione
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In precedenti edizioni del quotidiano ci siamo già occupati dell’annosa tematica relativa alla esistenza, o meno, di un reddito diverso in capo al soggetto che cede, magari con elevati incassi, dei beni personali (quadri, mobili antichi, oggetti da collezione, francobolli, monete, eccetera).

Abbiamo sempre ritenuto che la casistica del reddito occasionale derivante da attività commerciali, così come evocata dall’articolo 67, comma 1, lettera i) del TUIR, non fosse un abito adatto per il privato cittadino che, senza nessun intento lucrativo, si trovi a monetizzare anche ingenti somme, per qualsiasi ragione, dalla vendita di beni propri.

Ciò oggi appare ancor più realistico, grazie alle numerose opportunità che sono offerte “dalla rete”, ove risulta sufficiente offrire in vendita beni delle più svariate tipologie per avere buone possibilità di trovare un acquirente interessato.

Abbiamo anche sostenuto che si dovesse, invece, ricercare un discrimine per la gestione di quelle situazioni nelle quali il contribuente si procurasse dei beni sapendo di poterli cedere con lucro, magari servendosi in via informale di amici e collaboratori “sguinzagliati” alla ricerca dell’oggetto particolare che potesse essere appetibile sul mercato.

Non eravamo invece riusciti, e ne facciamo ammenda, a coniare uno slogan che potesse essere efficacemente utilizzato per distinguere le due richiamate situazioni.

Lo spunto di discussione si è recentemente arricchito di un nuovo tassello con l’emanazione della sentenza n. 826, depositata dalla CTR Toscana in data 9 maggio 2016. I giudici regionali hanno sopperito alla nostra mancanza e sono efficacemente riusciti ad affermare che, sul versante fiscale, vi è differenza tra il collezionista ed il mercante. Per collezionista si intende l’appassionato di un determinato bene che, per proprio diletto, attiva una serie di scambi finalizzati al completamento della propria collezione; per mercante, invece, si intende il soggetto che fa di tali scambi una propria attività, finalizzata non al completamento della collezione, bensì all’introito di denaro.

Il caso di specie riguardava bottiglie mignon di liquori, probabilmente cedute in internet. Anche se la vicenda non è del tutto limpida, dagli atti di causa si comprende che l’Ufficio aveva emanato un avviso di accertamento contestando l’esistenza di una attività di impresa (con addebito, dunque, anche di IVA e di IRAP). Il ricorso del contribuente era stato accolto in primo grado, ma l’Ufficio aveva insistito proponendo appello.

Il tema è complicato da un vizio di procedura, posto che sembra che l’Ufficio non abbia allegato all’atto di accertamento dei “tabulati” con l’elenco delle operazioni, con la conseguenza che si sono palesati anche evidenti vizi legati all’articolo 7, comma 1, della L. 212/2000 (Statuto dei diritti del Contribuente).

A prescindere da tale particolare circostanza, i Giudici analizzano anche la vicenda nel merito, riscontrando che la casistica riguarda un particolare settore del “mondo degli scambi”, definito da alcuni analisti “il regno del baratto“.

Quadri e altre opere d’arte, mobili e oggetti d’antiquariato, gioielli antichi, auto d’epoca, francobolli da collezione e, collezioni di francobolli, libri antichi, e così, tanti altri beni rientrano in questo settore, compreso il mondo delle bottiglie liquori d’antiquariato.

E qui coniano lo slogan che ci piace e che apprezziamo, riscontrando che, in tale ambito, risulta, appunto, non di facile soluzione il confine tra il “collezionista” e il “mercante d’arte”.

La distinzione delle predette figure, fondamentale ai fini fiscali, comporta una, invero, non facile valutazione tra, chi acquista uno dei citati beni per fini speculativi, e l’amatore che compra un’opera per tenersela, ma, successivamente, la rivende e guadagna senza aver avuto di mira il guadagno, magari per acquistare altra opera d’arte che più lo appassiona.

Ritiene il Collegio che la linea di demarcazione tra i menzionati soggetti è rappresentata dalla presenza o meno dei requisiti della commercialità; il collezionista rimane tale sino a quando non assume le caratteristiche dell’imprenditore abituale.

La generica attività di vendita di un bene risulta soggetta ad adempimenti di natura formale (contabile, fiscale, eccetera) qualora venga realizzata in via professionale ed abituale: quest’ultimi requisiti devono emergere dalla regolarità, sistematicità e ripetitività con cui il soggetto realizza atti economici finalizzati, al raggiungimento di uno scopo.

Nel caso in esame, si deve escludere che il contribuente, pensionato, abbia realizzato parallelamente l’attività imprenditoriale. Mancano, infatti, i requisiti previsti dalle disposizioni civilistiche (articolo 2082 del cod. civ.) che richiedono la professionalità e la specifica organizzazione economica. Conforta l’orientamento espresso dai Supremi Giudici (sentenze n. 519 del 14.03.1762 e n. 6395 del 03.12.1981).

Sempre secondo i Giudici Regionali, aiuta in tale ragionamento il fatto che il contribuente (allegando copiosa documentazione) abbia dimostrato:

  • il numero esiguo di operazioni (vendite) realizzate;
  • il fatto che tali transazioni siano avvenute – in massima parte – tra i medesimi soggetti collezionisti (circostanza, questa, affermata dal contribuente e non smentita dall’Ufficio).

Dunque, se la gran parte delle bottiglie trattate (peraltro a prezzi assolutamente non di mercato) provenivano da collezionisti privati, appare più che plausibile ritenere che tali scambi siano proprio finalizzati ad arricchire la propria collezione, con relativa assenza di scopo di lucro.

Certamente il caso trattato è particolare e, probabilmente, anche la tipologia di beni (non certamente preziosi per l’osservatore comune) ha contribuito a delineare un contorno più simile a quello del collezionista che non a quello del mercante.

In ogni caso, ci pare che il principio affermato sia certamente degno di nota ed utile da memorizzare.

Dottryna