17 Dicembre 2014

Cancellazione di società e reato di sottrazione fraudolenta

di Luigi Ferrajoli
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Con la pronuncia n. 48424 del 20 novembre 2014, la Quinta Sezione della Suprema Corte ha confermato la configurabilità del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte previsto dal disposto normativo di cui all’art. 11 del D. Lgs. n. 74/2000 nel caso di cessione d’azienda e successiva cancellazione di una società debitrice dell’Erario.

Nel caso di specie, il Tribunale di Roma, in accoglimento dell’appello del P.M., aveva disposto il sequestro preventivo di un’azienda costituita da tre licenze per trasporti di linea, dai contratti commerciali e da tutti i beni aziendali, ritenendo sussistenti le ipotesi di reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte previste dal sopra citato articolo, per il trasferimento dell’azienda medesima, inizialmente, da una prima ad una seconda società e, successivamente, da quest’ultima ad una terza società, con la finalità di sottrarre l’azienda alle pretese creditorie dell’Amministrazione finanziaria.

I legali rappresentanti delle società interessate proponevano ricorso in Cassazione la quale, tuttavia, li ha rigettati ritenendo che la frettolosa cancellazione della società originaria debitrice del fisco rendesse non meramente apparenti le motivazioni del Tribunale che aveva disposto il sequestro preventivo sulla base del carattere fraudolento della prima cessione e della consapevolezza, da parte del legale rappresentante della anzidetta società, delle obbligazioni tributarie gravanti su di essa.

Il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte si configura ogniqualvolta taluno, al fine di sottrarsi al pagamento delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva (ex art. 11, co. 1, D.Lgs. n. 74/2000). La medesima fattispecie di reato si perfeziona, inoltre, nel caso in cui il soggetto interessato, al fine di ottenere per sé o per altri un pagamento parziale dei tributi e relativi accessori, indica nella documentazione presentata ai fini della procedura di transazione fiscale elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi per un ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila (ex art. 11, co. 2, D. Lgs. n. 74/2000).

Con detta disposizioni il legislatore sanziona determinate condotte di disposizione di beni in presenza di comportamenti giuridici o materiali diretti alla frustrazione delle pretese creditorie vantate dall’Erario e ciò a tutela della fase della riscossione erariale.

La fattispecie, sotto il profilo materiale, è descritta da un lato tipizzando un’ipotesi di comportamento vietato – l’alienazione simulata di beni del contribuente -, dall’altro utilizzando una tipica clausola di chiusura, richiamando genericamente la commissione di “atti fraudolenti”.

Quanto alla predetta connotazione di fraudolenza richiamata, si deve ritenere inquadrabile nella medesima fattispecie ogni operazione che non solo comporti un indebolimento delle garanzie patrimoniali del contribuente, ma che anche occulti la reale sostanza economica della vicenda.

La Suprema Corte, con la pronuncia in oggetto, ha statuito che, ai fini della configurabilità del reato in esame, “rileva qualunque atto idoneo ad ostacolare il soddisfacimento di un’obbligazione tributaria” confermando un orientamento già da tempo affermato (Cass. n. 23986/2011 e n. 5824/2007) che aveva attribuito rilievo alla costituzione di un fondo patrimoniale.

La Terza Sezione ha specificato altresì che per poter affermare la sussistenza del reato in questione “occorre avere riguardo alla situazione esistente al momento della effettuazione dell’atto di alienazione o fraudolento” e che, pertanto, nel caso di specie, la seconda cessione della società era stata giustamente inquadrata dal Tribunale delle Libertà come la prosecuzione dell’intento posto alla base della prima finalizzato a rendere ulteriormente difficoltosa l’aggressione da parte dell’Erario.

Alla luce di tale ricostruzione, ritenendo che il complessivo disegno sotteso alle due azioni di cessione e alla cancellazione della società originaria palesassero il pericolo concreto che la disponibilità nelle mani del rappresentante legale della società originaria potesse agevolare la commissione di altri reati, la Suprema Corte ha ritenuto corretta e legittima la precedente applicazione della misura cautelare del sequestro preventivo e, pertanto, ha rigettato i ricorsi proposti.