5 Settembre 2016

Bonifici non giustificati tra parenti provano l’evasione fiscale

di Luigi Ferrajoli
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Con la sentenza n. 25451 depositata il 20 giugno 2016 la Corte di Cassazione, Sezione Terza Penale, si è occupata della questione afferente una vicenda in cui il GIP aveva disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente su beni di proprietà di un soggetto accusato di avere, nel corso degli anni, omesso di dichiarare elementi reddituali a lui pervenuti; rilevando la configurabilità del reato di dichiarazione infedele, ex articolo 4 D.P.R. 74/2000, nonché quello di fraudolenta sottrazione al pagamento delle imposte, ex articolo 11 D.P.R. 74/2000.

In particolare, il Tribunale, nell’accogliere l’istanza di riesame formulata dall’indagato, ha rilevato che la presunzione di attrazione a reddito delle rimesse bancarie, non dichiarate nella denunzia dei redditi e non giustificabili, poteva avere valenza esclusivamente in sede tributaria e, viceversa, era irrilevante sotto il profilo penale; pertanto, il decreto di sequestro doveva necessariamente essere annullato e i beni dovevano essere restituiti al ricorrente.

Avverso il provvedimento di accoglimento il Procuratore della Repubblica ha proposto ricorso per cassazione eccependo l‘illegittimità della motivazione assunta dal Tribunale e precisando, che ai fini dell’applicabilità del sequestro, era sufficiente l’esistenza del fumus commissi delicti. Non solo: il Procuratore aveva precisato che la richiesta di sequestro era stata formulata sia con riferimento alla commissione del reato previsto dall’articolo 4 D.P.R. 74/2000 sia per quello relativo all’articolo 11, rispetto al quale il Tribunale non aveva preso posizione, nonostante che dagli atti fosse emerso che il contribuente, subito dopo l’inizio della attività di verifica fiscale da parte della Guardia di Finanza, aveva provveduto a compiere atti di cessione dei beni al figlio simulati e volti a sottrarli alla esecuzione fiscale.

Nella pronuncia in esame, il Giudice di legittimità ha rilevato che l’ordinanza di annullamento era stata argomentata dal Tribunale sotto un duplice profilo: a) il provvedimento cautelare, essendo fondato sulle sole presunzioni legali previste dal diritto tributario le quali, secondo il giudice di merito, “non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato”, non sarebbe stato opportunamente motivato; b) il provvedimento di sequestro sarebbe stato “carente di motivazione in ordine alla sussistenza del fumus del reato di dichiarazione infedele”, non essendo applicabile la presunzione secondo la quale gli accrediti registrati sul conto corrente della persona giuridica contribuente si possano considerare ricavi, essendo nel caso di specie in presenza di contribuente persona fisica.

Sul punto la Corte di Cassazione ha precisato che le argomentazioni assunte dal Tribunale erano erronee e viziate.

Nello specifico, la Corte ha richiamato il principio statuito dall’articolo 32 D.P.R. 600/1973, che risulta applicabile indistintamente a qualunque contribuente che svolga un’attività imprenditoriale indipendentemente dalla sua forma giuridica, già sancito nella sentenza n. 4829/2015, secondo cui “sia i prelevamenti che i versamenti operati su conti correnti bancari devono imputarsi a ricavi ed … il contribuente, in mancanza di espresso divieto normativo, per il principio di libertà dei mezzi di prova, può fornire la prova contraria anche attraverso presunzioni semplici, da sottoporre comunque, ad attenta verifica del giudice. Quest’ultimo deve individuare analiticamente i fatti noti dai quali dedurre quelli ignoti, correlando ogni indizio, grave, preciso e concordante, ai movimenti bancari contestati”.

La Suprema  Corte ha, quindi, proseguito nella propria argomentazione affermando che l’interpretazione normativa contenuta nell’ordinanza emessa dal Tribunale in ordine alla irrilevanza nel procedimento penale delle presunzioni proprie dell’ordinamento tributario era in contrasto con il recente orientamento giurisprudenziale che prevedeva espressamente che “le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur non potendo costituire di per sé fonte di prova della commissione dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, hanno un valore indiziario sufficiente ad interare il fumus deliciti idoneo, in assenza di elementi di segno contrario a giustificare, come nel caso che interessa, l’applicazione di una misura cautelare reale (Cass. n. 2006/2015) .

Essendo l’ordinanza impugnata viziata sotto i diversi summenzionati profili, la Corte di Cassazione nel caso in esame ha ritenuto di annullare il provvedimento ed ha rinviato al Tribunale, in diversa composizione personale, al fine di provvedere nuovamente, in applicazione dei principi richiamati, in ordine alla richiesta di riesame presentato dal contribuente avverso il decreto di sequestro preventivo.

 

 

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