30 Maggio 2017

Accertamento “a tavolino” con meno garanzie per il contribuente

di Massimiliano Tasini
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C’era una volta il 2012.

La coraggiosa CTR della Lombardia, sezione staccata di Brescia, bacchettava l’Agenzia delle Entrate, rea di aver notificato un atto impositivo prima dello spirare dei 60 giorni dalla “chiusura delle operazioni” conseguenti all’avvio di una indagine bancaria.

Secondo la CTR, sarebbe stato violato l’articolo 12 comma 7 della L. 212/2000, cd. “Statuto dei diritti del contribuente”, che non sanziona con la nullità l’atto impositivo che avesse violato tale precetto, ma sul cui rispetto la Corte di Cassazione ha costituito tutta una giurisprudenza ferrea, a partire dalla sentenza 13934/2011, poi confortata dalla pronuncia 18184/2013 resa a Sezioni Unite, con la quale ha stabilito che “In tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, la L. 212/2000, articolo 12, comma 7, deve essere interpretato nel senso che l’inosservanza del termine dilatorio di 60 giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento – termine decorrente dal rilascio al contribuente, nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni – determina di per sé, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, la illegittimità dell’atto impositivo emesso ante tempus, poiché detto termine è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva. Il vizio invalidante non consiste nella mera omessa enunciazione nell’atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l’emissione anticipata, bensì nell’effettiva assenza di detto requisito (esonerativi dall’osservanza del termine), la cui ricorrenza, nella concreta fattispecie e all’epoca di tale emissione, deve essere provata dall’Ufficio” .

Tale tesi certamente continua a piacere, e così il 19 aprile 2017, giorno dedicato dalla Quinta Sezione Tributaria della Corte di Cassazione ai temi delle verifiche fiscali, la stessa Corte riafferma tale principio, “azzerando” l’accertamento fiscale – emesso su una ONLUS che aveva subito una verifica fiscale –  proprio in ragione di tale violazione.

Così nasce la sentenza 9834/2017.

Ma lo stesso giorno si esamina pure la vicenda risolta, a favore del contribuente, dalla CTR di Brescia di cui si diceva sopra. Sembrerebbe lo stesso caso affrontato dalla sentenza 9834/2017 ma la soluzione è diversa.

La diversità sta nel fatto che siamo di fronte a una “non verifica”: già, perché l’indagine finanziaria si fa “a tavolino”, e secondo la Corte in tal caso non vi è motivo (sic…) perché il contribuente debba godere delle stesse tutele accordate dall’articolo 12 comma 7 della L. 212/2000 alle verifiche.

Nasce allora la sentenza 9823/2017, nella quale si ricorda che le Sezioni Unite hanno stabilito, con dictum dal quale non v’è motivo di discostarsi, che, in caso di accertamenti “a tavolino” (come nella specie, traendo origine il controllo da verifiche bancarie e non anche da accessi, ispezioni e verifiche nei locali del contribuente), non sussiste per l’Amministrazione finanziaria alcun obbligo di contraddittorio endoprocedimentale (Sez. U, sentenza 24823/2015).

Le ragioni per le quali l’ordinamento garantisca una tutela rafforzata (rectius: normale) al contribuente che subisca una verifica fiscale presso la propria sede –  con diritto a disporre di un processo verbale di constatazione, e con correlato diritto a interloquire in uno spazio temporale di ben 60 giorni, nell’ambito del quale formulare, osservazioni, deduzioni e richieste -, e non invece nel caso in cui subisca una “mera” verifica “a tavolino”, cioè presso la sede dell’ufficio dell’Agenzia delle Entrate, ovvero la sede dei militari operanti, non ci appaiono chiare, sotto alcun profilo.

Viceversa, le conclusioni cui la Corte è pervenuta ci appaiono sicuramente chiare.

A noi pareva più grave la situazione nella quale il Fisco viene legittimato a emettere un atto impositivo senza alcuna possibilità di interlocuzione da parte del contribuente, piuttosto che l’altra, nella quale il fisco deve attendere 60 giorni per il sol fatto che questa seconda verifica è fatta presso l’impresa.

D’altra parte, in tempi non sospetti la Cassazione ebbe modo ripetutamente di osservare che la mancanza di un contraddittorio preventivo in materia di indagini finanziarie realizza una mera “diseconomia di procedura”. Difficile aspettarsi un risultato diverso.

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