1 Giugno 2017

Accertamenti bancari: scritture regolari non cambiano l’onere della prova

di Marco Bargagli
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In linea di principio, a fronte dei versamenti transitati sui conti correnti intestati al soggetto passivo d’imposta, il contribuente ha l’onere della prova di dimostrare che le somme ivi accreditate siano regolarmente confluite nella dichiarazione dei redditi.

Nell’attuale contesto normativo di riferimento, (cfr. articolo 32, primo comma, n. 2 del D.P.R. 600/1973), gli uffici delle imposte possono infatti invitare i contribuenti, indicandone il motivo, a comparire di persona o per mezzo di rappresentanti per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento nei loro confronti, anche relativamente ai rapporti ed alle operazioni bancarie acquisiti da parte degli Uffici finanziari.

Inoltre, per espressa disposizione normativa, i dati e gli elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni bancarie acquisiti da parte dell’Amministrazione finanziaria, possono essere posti a base delle rettifiche e degli accertamenti, come maggiori ricavi, qualora il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta ossia che non hanno rilevanza allo stesso fine.

Quindi, le entrate non giustificate transitate nei conti correnti bancari intestati al contribuente, rappresentano, salvo prova contraria, maggiori ricavi imponibili che rettificano il reddito del soggetto passivo d’imposta.

Ciò posto, anche nella duplice ipotesi della corretta tenuta della contabilità e della apparente congruità del reddito imponibile, scaturente dall’applicazione degli studi di settore, non si realizza una traslazione dell’onere della prova in capo all’Ufficio.

Tale concetto giuridico è stato recentemente espresso dalla Corte di Cassazione, nella sentenza n. 6947/2017 emessa in data 17 marzo 2017.

Gli ermellini hanno rilevato che il giudice di merito aveva accolto l’appello proposto dal contribuente avverso l’atto impositivo, sull’erroneo presupposto che incombesse sull’Amministrazione finanziaria l’onere della prova dei maggiori redditi non dichiarati dal contribuente, scaturenti dagli esperiti accertamenti bancari, nonostante le disposizioni di Legge pongano, come detto, una presunzione legale relativa a favore dell’ufficio finanziario, con contestuale prova contraria a carico del contribuente che deve dimostrare l’irrilevanza e la neutralità fiscale di ogni singola movimentazione.

Il contribuente aveva invece presentato ricorso, ritenendo che la citata presunzione legale potesse essere superata sulla base dei seguenti elementi:

  • regolare tenuta delle scritture contabili;
  • congruità dei redditi dichiarati dal contribuente agli studi di settore al medesimo applicabili;
  • cointestazione dei conti correnti con la moglie;
  • utilizzo delle ricevute bancarie per i pagamenti delle fatture.

La suprema Corte di Cassazione ha accolto il ricorso presentato da parte dell’Ufficio finanziario rilevando che, in materia di accertamenti bancari, l’orientamento consolidato espresso nel tempo proprio da parte del giudice di legittimità ritiene che, a fronte dei versamenti effettuati dai lavoratori autonomi e dai professionisti sui propri conti correnti, scatti la presunzione legale relativa con il correlato onere della prova in capo al contribuente ispezionato.

Inoltre, con riferimento alla questione della cointestazione al coniuge del contribuente dei rapporti bancari oggetto di accertamento, come costantemente affermato dalla stessa Corte di cassazione, “l’operatività della suddetta presunzione legale a carattere relativo, e la conseguente inversione dell’onere della prova si applicano non solo in caso di contestazione, ma addirittura nell’ipotesi di intestazione dei rapporti bancari a terzi che si ha motivo di ritenere connessi ed inerenti al reddito del contribuente”.

Infine, risultano del tutto irrilevanti le altre circostanze indicate dal giudice di merito ovvero che il contribuente avesse dichiarato un reddito congruo con gli studi di settore o che la sua contabilità fosse formalmente, ma non sostanzialmente (come attestava l’accertamento bancario) regolare, ivi compreso, l’utilizzo delle ricevute bancarie come forma di pagamento delle fatture emesse.

Infatti, lo stesso contribuente ha ammesso – nell’atto di appello – di essere incorso in ripetuti errori di contabilizzazione degli acconti ricevuti dai clienti e l’Amministrazione finanziaria ha dimostrato che “la somma degli incassi frazionati non corrispondeva neanche all’importo totale delle relative fatture attive”.

Esame degli istituti deflattivi del contenzioso tributario