12 Dicembre 2014

Abuso del diritto: confini già certi?

di Giovanni Valcarenghi
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Il tema dell’abuso del diritto è quanto mai di attualità in questi giorni di fine 2014, vuoi per la frequenza con cui la tematica fa capolino negli accertamenti dell’Agenzia, vuoi per le prospettive di riforma affidate alla legge delega, peraltro non ancora palesate con decreto attuativo, nonostante i ripetuti annunci.

Certamente l’argomento è tanto delicato quanto antipatico, per la forma “plastica” che ha assunto nel tempo, tanto da essere scomodato ogni qual volta il contribuente riesce a risparmiare anche pochi euro di imposta. La questione, a parere di chi scrive, ha raggiunto livelli di estrema tensione per il solo fatto che i Giudici di Cassazione, chiamati a pronunciarsi su casistiche spesso di confine, hanno finito con il legittimare determinati ragionamenti che, se applicati a casistiche non patologiche, finiscono per rendere la vita “fiscale” impossibile.

Da un lato, dunque, ben venga la prospettata riforma, sperando che si riescano a tracciare confini precisi; per altro verso, però, pure in assenza dell’attuazione della legge delega, dovrebbe pur sempre prevalere il buon senso.

Piace, allora, ricordare una recente sentenza della Cassazione (n. 25758 dello scorso 05.12.2014) che sembra anticipare i tempi, facendo quasi apparire inutile la modifica normativa (ovviamente, si tratta di un paradosso).

Il caso analizzato è sostanzialmente frequente nella pratica: una società, proprietaria di immobili, stipula un contratto di lease back su un immobile di proprietà, adducendo presunte necessità finanziarie (estinzione di debiti bancari, pagamento fornitori, pagamento scoperti INPS, ecc.). L’Agenzia delle Entrate, invece, contesta che l’unico intento della operazione fosse quello di dedurre più velocemente il costo dell’immobile per il tramite dei canoni di leasing, rispetto al “ritmo lento” dell’ammortamento, tant’è che viene prevista contrattualmente una maxi rata importante (contrastante con le presunte esigenze di liquidità) e la situazione patrimoniale ed economica della società appare florida. Dunque, la stipula risponde all’unica finalità di abusare del diritto, al fine di risparmiare le imposte.

Curioso è il fatto che la Commissione di primo grado abbia accolto il ricorso del contribuente, non intravedendo, dunque, alcun disegno abusivo, mentre in secondo grado è stata riconosciuta la detrazione dell’IVA e confermata la ripresa ai fini delle imposte dirette (quindi, il contribuente avrebbe abusato solo del TUIR!), pur riconoscendo la non debenza di sanzioni per la incertezza sulla portata della norma (quindi, si abusa non violando!).

Il parere della Corte, che appare limpido, poggia sulle seguenti considerazioni (si omettono, per conferire maggiore speditezza alla lettura, gli abbondanti riferimenti giurisprudenziali):

  • secondo la giurisprudenza comunitaria, perché si possa parlare di pratica abusiva, occorre che si verifichino due condizioni: (1) le operazioni controverse devono, nonostante l’applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della direttiva IVA e della legislazione nazionale che la traspone, procurare un “vantaggio fiscale” la cui attribuzione sia contraria all’obiettivo perseguito da queste disposizioni; (2) deve risultare da un insieme di elementi oggettivi che lo “scopo essenziale” dell’operazione controversa è l’ottenimento di detto vantaggio fiscale;
  • l’elemento integrante 1’”indebito” vantaggio fiscale, per “contrarietà” allo scopo perseguito dalle norme tributarie eluse, va ricercato nella causa concreta della operazione negoziale sottesa al “meccanismo giuridico contorto”, volto ad aggirare la normativa tributaria e posto in atto per raggiungere lo scopo essenziale del risparmio d’imposta, che in altro modo non sarebbe possibile conseguire, rimanendo precluso l’utilizzo di strumenti o combinazioni negoziali, pur se esenti da vizi di nullità ex art. 1418 Cod. Civ., volti a realizzare un risultato fiscale non conforme a quello “normale” e cioè non conforme allo scopo voluto dalla norma tributaria elusa, avuto riguardo alla realtà effettuale della operazione economica e non al suo mero rivestimento giuridico.

Inoltre, dopo avere riscontrato che non sia possibile escludere l’esistenza di un risparmio mediante la stipula del lease back rispetto all’ammortamento, si afferma che la comparazione deve essere compiuta non necessariamente in relazione alla scelta tra le diverse operazioni negoziali che avrebbero potuto essere realizzate dalla impresa (non potendo l’Amministrazione finanziaria sindacare la preferenza tra mutuo, finanziamento, prestito soci, leasing, ecc.), ma in relazione ai “risultati” che la impresa viene a conseguire con l’attività negoziale svolta.

Quindi, si dovrebbe dimostrare che l’impresa abbia intrapreso la nuova attività negoziale denotando la volontà di non realizzare o di realizzare solo in misura trascurabile il fine di finanziamento, per perseguire invece essenzialmente l’obiettivo del vantaggio fiscale connesso alla deducibilità in notevole minore tempo dell’originario costo di acquisto dell’immobile, trasformato giuridicamente in canoni di leasing.

Tanto premesso, la mera astratta configurabilità di un “vantaggio fiscale”, realizzato in elusione delle norme tributarie sui redditi (e dunque un vantaggio fiscale “indebito”), non è evidentemente sufficiente ad integrare la fattispecie abusiva, essendo richiesta anche la concomitante condizione della inesistenza di non marginali ragioni economiche diverse dal “risparmio d’imposta” (ossia il cd. “scopo esclusivo” o, quanto meno, prevalente, di conseguire un vantaggio fiscale) e quindi l’accertamento del carattere recessivo della volontà diretta alla produzione degli effetti giuridici conformi alla causa astratta ovvero concreta dello schema negoziale utilizzato dalle parti, rispetto alla effettiva volontà del contraente-contribuente di conseguire, appunto in via assolutamente prevalente, il risultato fiscale “ulteriore”.

Tale accertamento deve essere compiuto avendo come riferimento non la mera intenzione del soggetto di conseguire un risparmio d’imposta, ma l’elemento oggettivo della condotta negoziale, dovendo trovare necessario riscontro lo scopo del risparmio d’imposta, in elementi circostanziali quali, ad esempio, l’impiego “improprio” o “distorto” dello strumento negoziale, ovvero la “anormalità” della complessiva operazione in quanto non rispondente alle normali logiche che regolano le scelte economiche e lo svolgimento dell’attività d’impresa.

Come più volte ribadito dalla giurisprudenza comunitaria e di legittimità, la opzione del soggetto passivo per la operazione negoziale che risulti fiscalmente meno gravosa non costituisce ex se condotta “contraria” allo scopo della disciplina normativa tributaria, laddove sia lo stesso ordinamento tributario a prevedere tale facoltà di scelta. Esercitata tale facoltà, l’operatore rimane soggetto al regime fiscale previsto in relazione ai presupposti impositivi od agevolativi previsti dalla norma.

Ed, infine, nemmeno i sintomi di una condotta abusiva sono condivisi dal Collegio, che:

  • in relazione all’ottima situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società, ritiene che la medesima non impedisca alla stessa di attingere al credito al fine di procurarsi liquidità non necessariamente da destinare ad investimenti produttivi, ma anche soltanto per riorganizzare la propria esposizione debitoria verso i fornitori e rinegoziare, come nel caso di specie, le passività verso la banca finanziatrice;
  • in relazione alla previsione di una maxi-rata iniziale, riscontra l’applicazione del principio di libera determinazione negoziale delle parti e nella valutazione della convenienza economica dell’affare in relazione al costo di accesso al finanziamento offerto sul mercato dalle società di leasing (non trattasi, dunque, di elemento difforme od abnorme rispetto alla attuazione dello schema del contratto).

Tutto bene, dunque, ciò che finisce bene, specialmente quando si valorizza l’esistenza di non marginali finalità diverse dal mero risparmio di imposta e si afferma, con decisione, che non spetta all’amministrazione finanziaria sindacare le scelte operative dell’imprenditore che, ove possibile, “deve” anche minimizzare il carico fiscale, essendo appunto imprenditore e non benefattore dell’Erario (dovere che non pare ancora inserito nella Carta Costituzionale).